
martedì 29 marzo 2011
Kant e la Libia

L’anti-immigrazione come coesione

A Roma, la collezione Städel di Francoforte

"Senso" al Liceo Classico

martedì 22 marzo 2011
No party, no Italia

di Alessandro Lanzi
Pur non essendo un fervido sostenitore dell'unità d'Italia, ho guardato con particolare ammirazione, e forse invidia, le persone che in questi giorni nella Capitale, tra una piazza e l'altra, camminavano con bandiere o abbigliamento tricolore.
Ho avuto la sensazione che i giovani e gli anziani, uomini e donne, che mercoledì sera rivendicavano con orgoglio la Patria, lungo le vie romane, lo facessero con piena partecipazione nel momento del festeggiamento e ne sono stato contento, anche se, devo ammettere, più per il loro entusiasmo, che non per il mio. Sarà forse per ignoranza o per altre mie posizioni, ma al di là della festa in sé, che crea entusiasmo e allegria, mercoledì sera, a questo commercio dell'unità, ero un po' indifferente. Ho avvertito la stessa sensazione che provo nel periodo natalizio, quando tutti sono, chissà perché, più buoni, più calmi e il cristianesimo aleggia nei piatti e nei pacchi regalo.
Anche giovedì la mia sensazione davanti al Parlamento, quando le star sono uscite mostrandosi alla folla “invasata d'Italia”, non è cambiata, ma stava iniziando quel mutamento, che si è completato il giorno dopo. Vedo ministri e personaggi vari, che poltriscono nelle Camere, salire su auto blu seguite da altre auto blu o dagli Agenti di “pubblica” sicurezza. Inizio a vedere i primi segni della mia Italia. Passeggio, anche dopo la passerella, lungo le vie del centro romano, tra la gente che inizia a disperdersi in varie direzioni e incuriosito ascolto i commenti. Da un lato coloro che avrebbero avuto il piacere di vedere il Cavaliere, che non si è visto, dall'altro coloro che hanno ringraziato il cielo di non averlo visto. Tra cui io. Poi ho sentito un commento di un gruppo del Nord rivolto ad alcune persone del Sud che stavano creando un po' di confusione poco più avanti da loro. E infine il giorno capisco il motivo dell'indifferenza. Tutti contro la Lega, che non ha festeggiato l'unità, il Nord che rivendica la sua indipendenza, i ministri che non cantano l'Inno, il ministro della Camera contro l'altra parte del governo. Questa è l'Italia che conosco, quella di tutti i giorni, divisa in lungo e in largo, del tutti contro tutti. Ora non voglio essere disfattista, ma la realtà che vedo, esclusa l'ipocrisia di un solo giorno, è questa. L'Italia malata di mille tumori, che sopravvive al menefreghismo generale con una classe politica che fa gli interessi privati e di parte.
Gaber nella canzone “Io non mi sento italiano” diceva “mi scusi presidente, lo so che non gioite se il grido Italia Italia c'è solo alle partite, ma un po' per non morire o forse un po' per celia, abbiam fatto l'Europa facciam anche l'Italia.” Con queste parole si riassume bene quella che è la situazione italiana nel giorno dell'unità: quando c'è la festa (le partite), tutti siamo o ci sentiamo o ci fa comodo essere italiani, ma quando ci si deve davvero unire per costruire, per far fronte alla realtà quotidiana, rimane solo l'espressione Italia, ma gli italiani della festa sono tutti a dormire.
Panettone prematurato (con scappellamento a destra)

di Pierpaolo Capezzera
Chi non conosce la celeberrima trilogia italiana “Amici Miei”? Pochi, credo. L'opera, partorita dalla mente di Mario Monicelli, è oramai diventata un cult del cinema nostrano, grazie a frasi storiche (come la “supercazzola” del conte Mascetti, alias Ugo Tognazzi) entrate ormai nel linguaggio comune. E come dimenticare le “zingarate” che i nostri cinque amici andavano compiendo di volta in volta, prendendosi gioco del malcapitato di turno? Insomma, una pellicola da conservare gelosamente, e da mostrare ai nipotini, in ricordo dei bei tempi in cui il cinema faceva ridere con poco, ma quel poco era opera del genio. Ebbene, sull'ombra del successo di questa pietra miliare del trash anni '80 (ma trash, in fondo, neanche troppo), la Filmauro ha voluto guadagnarci di più, passando il testimone (prima di Monicelli, poi di Nanni Loy) al regista Neri Parenti, autore del nuovo “Amici miei – Come tutto ebbe inizio”. Basta leggerne la trama e dare un'occhiata al cast per rendersi conto di come questo prequel altro non è che un bieco tentativo di utilizzare un nome celeberrimo della pellicola made in Italy per rifilarci l'ennesimo cinepanettone, senza però doverlo agghindare di luci natalizie e Babbe Natali in decolté. Questo prodotto ha ben poco a vedere con la trilogia originale: non basta, infatti, prendere cinque bischeri dediti al cazzeggio per giustificarne il nome; perché di certo un Panariello non sarà mai all'altezza di un Tognazzi, o di un Noiret, o di un Celi. Mi verrebbe da chiamarla pubblicità ingannevole, che tenta di rifilarti un bidone spacciandolo per un diamante, se non fosse che, purtroppo, la gente apprezzerà molto il film, essendo ormai assuefatta da tanta comicità spicciola. Non c'è più posto per “sblinde” e “terapie tapioco”, superate da tette e culi. Speriamo invece che al botteghino faccia il flop, e che venga denigrato e schifato “come se fosse antani”.
Festeggiamo l’equinozio di Primavera

Mercoledì 23 Marzo, dalle ore 9.30, presso il Centro “U. Calabresi” (via Marconi, Sezze) si svolgerà l’evento “Festeggiamo l’equinozio di Primavera”, organizzato dalla Cooperativa di Servizi per i Beni Culturali Poièo. Attraverso la scienza e la letteratura si cercherà di approfondire il tema dell’equinozio di Primavera: a interagire con gli spettatori ci sarà un rappresentante dell’Associazione Pontina di Astronomia, che utilizzerà alcuni strumenti didattici, e due componenti della Compagnia Matuta Teatro, che reciteranno una novella del Marcovaldo di Italo Calvino. Per maggiori informazioni potete consultare la sezione eventi del sito web www.comune.sezze.lt.it
L’ingresso è libero.
domenica 20 marzo 2011
Bye bye, Novecento

di Martina Nasato
Un fortunato spettacolo teatrale di Corrado Guzzanti, datato 1998 e intitolato, eloquentemente, “Millenovecentonovantadieci”, dipingeva il Novecento come un secolo talmente fallimentare da aver bisogno dei “tempi supplementari”. Partendo da quell'idea, il 2011 dovrebbe segnare la fine reale del Novecento. E forse è davvero così. Un secolo che è andato accartocciandosi su se stesso, partendo dal rilassato splendore della “Belle epoque”, all'appiattimento e all'omologazione della cultura e dell'identità, piegate ad una spersonalizzante economia globale, passando per rovinose guerre, ideologie insane e radicalizzazioni. Il mondo occidentale ha avuto bisogno di un ulteriore decennio, per così dire, di riflessione. Ora, finalmente, il nuovo secolo, il nuovo millennio hanno avuto ufficialmente inizio. L'uomo ha una nuova percezione di sé, ha più facilmente accesso alla cultura, ha nuovi stimoli. Ha coscienza del suo potenziale e spesso anche i mezzi per esprimerlo. È avvenuto quello che la globalizzazione non aveva previsto: gli uomini sanno, hanno modo di sapere. È nata l'epoca del “wiki”, della condivisione di dati e informazioni. Eccolo il famigerato “Millennium Bug”: la globalizzazione non ha omologato, bensì ha unito, e quelli che dovevano cadere nella rete, sono diventati rete loro stessi. Così accade che il popolo cinese dia il via alle “passeggiate del gelsomino”, manifestazioni silenziose contro uno degli ultimi e dei più bui regimi dittatoriali, e lo fa usando il simbolo della rivolta tunisina: il gelsomino, appunto.
Dall'Europa, all'Africa, all'Asia corre il filo della protesta. I regimi dittatoriali (tipici del Novecento) cadono uno dopo l'altro, l'economia capitalista è implosa, la democrazia è ormai una forma vuota a contenuto variabile, un'ideologia più che una realtà.
Il nuovo millennio è iniziato sotto il segno della rivolta, della cultura e delle aspirazioni libertarie. È iniziato, come ogni altra epoca, con la difesa dello status quo, da una parte, e con un mondo nuovo che vuole vivere, dall'altra. Difficile sapere chi avrà la meglio e se i cambiamenti passeranno attraverso rivoluzioni o evoluzioni. Al momento possiamo solo dire: «Bye bye, Novecento».
giovedì 17 marzo 2011
mercoledì 16 marzo 2011
martedì 15 marzo 2011
Estetica e Repubblica

di Stefano Pietrosanti
Partiamo dalla senso etimologico della parola estetica: la capacità di sentire. Sta a dire, l'estetica è il primo canale per entrare in comunicazione col contesto in cui si è immersi, per influire su questo e per rispondere alla pressioni che questo ci trasmette. Forzando un poco, si potrebbe quindi dire che ordinamenti come quelli democratici, che vivono del dialogo tra componenti formalizzato dalla legge, sono ordinamenti fondati sull'estetica.
In un altro senso, più ristretto, la parola estetica esprime il concetto di capacità di sentire il bello. Assume quindi una dimensione relativa, perché questo sentimento è sottoposto all'elaborazione e all'accettazione di una serie di regole di massima cui attenersi. Anche in questo senso, si può facilmente notare la dimensione politica del concetto: di estetica sono fatti i confini di ogni ordinamento sociale, poiché gli spazi politici si delimitano a forza di simboli, ritualità, miti condivisi e richiami a sensazioni che formano il sentire comune di coloro che fanno parte di qualsiasi comunità civile.
Ora, si può dire che l'Italia, dagli anni sessanta fino agli anni ottanta, ha vissuto un periodo anestetico, un periodo che l'ha privata della sua capacità di sentire. Senza particolari progetti di vita comune, la sua vita è stata in buona parte il fruire del benessere garantito dalla crescita economica modulata da un generoso stato sociale e dal soffocante scudo americano che bloccava le pressioni dell'autocrazia sovietica ad est. Personalmente non amo le generalizzazioni, appunto per questo mi occupo d'economia, una scienza che funziona bene quando e se riesce a distinguere cause, concause e motivazioni nascoste di un fenomeno; però penso che un linguaggio di simboli sia più consono a questo contesto. E quale miglior simbolo vivente di quel periodo se non l'onorevole Andreotti?
Al netto di tutti i più cupi sospetti, la principale colpa che gli ascrivo è essere stato esattamente questo: un monumento all'anestesia e allo stesso tempo l'incarnazione della grande anestesia nazionale. Dal vestire bigio al motto "meglio tirare a campare che tirare le cuoia", la rappresentazione scenica di un mondo appiattito tra il non detto mostruoso della bomba, l'impotenza dell'esser presi tra i due blocchi, la tacita considerazione della democrazia come un compromesso per dare una veste accettabile alla gestione del potere, con il vantaggio di smorzare i toni di qualsiasi scontro.
A forza di passettini e frasi velenose dette a voce tremante, tutto questo ha sterilizzato in culla la Repubblica, lasciandone la vuota scorza a onta degli sforzi di un Pertini e delle altre mosche bianche che hanno vissuto la democrazia liberale e repubblicana come ciò che effettivamente è: uno dei tanti ideali rivoluzionari, a mio parere il più nobile.
Dato che gli spazi vuoti non rimangono a lungo liberi in natura, lo spazio aperto (anestetizzato) del sentire è stato presto occupato dalla cricca berlusconiana e da ciò che questa rappresentava a livello di costume. Non voglio sdilinquirmi nella critica di quest'estetica ormai nemmeno più tanto nuova, mi va solo di trasporre su carta un concetto che maturo da tempo: io mi considero un liberale di sinistra, quindi progressista, ma sono convinto che il mio fastidio per l'onorevole Berlusconi abbia una radice tutta conservatrice. Conservatrice di cosa? Dell'ideale rivoluzionario repubblicano e dell'estetica pubblica che questo si porta dietro. Per questo sono convinto di due cose: in primo luogo, che la mia opposizione all'andazzo delle cose sia pre-politica e trans-politica, più che altro un'opposizione estetica; in secondo luogo, che si possa tranquillamente dire, con un bon mot, che Berlusconi è la continuazione di Andreotti con altri mezzi.
L'ingiustizia della giustizia

di Alessandro Lanzi
Negli ultimi tempi il problema principale che affligge l'Italia pare, secondo questo Governo, la giustizia. L'urgenza e la necessità di riformare il processo penale e la voglia di cambiare la costituzione, sotto i vari governi Berlusconi, non sono passati mai in secondo piano.
Certo bisogna riconoscere che il nostro sistema della giustizia non è il massimo dell'efficienza e che sicuramente richiede un'adeguata revisione da parte dei giuristi processualisti. Ma bisogna senz'altro ammettere che il nostro paese ha mali peggiori: la crisi economica, che coinvolge tutto il popolo e le imprese, l'istruzione e il futuro degli studenti, la previdenza sociale (circa 3 morti bianche al giorno e migliaia di malati a causa del lavoro all'anno), il sistema pensionistico, il potere delle associazioni mafiose, che dal 2004 ad oggi hanno aumentato la loro influenza nel mercato italiano del 50%, la tutela del patrimonio artistico e culturale sempre più stuprato dal cemento e dall'ignoranza. Questi sono solo pochissimi dei problemi che riguardano tutti gli italiani, ma sono quelli a cui un paese civile e con un governo attento alla cosa pubblica darebbe la precedenza.
Problemi che hanno il loro minimo comune multiplo nella parola “pubblici”.
La giustizia, anch'essa di primaria rilevanza pubblica, richiede per un'adeguata revisione tempi lunghi, larghe intese e un'ampia elaborazione in sede giurisprudenziale. Tutto questo oggi sembra proprio mancare, date le recenti affermazioni del Guardasigilli, che intende procedere alla revisione di 18 articoli della Carta Costituzionale (quelli naturalmente sul potere giudiziario) in un anno e mezzo. Inoltre ciò che maggiormente aggrava le intenzioni di riforma non è l'approccio sociale alla questione, ma la necessità di trovare un escamotage forzato a tutti i problemi giudiziari che ha il Cavaliere. Ora solo quei poveri italiani che pensano veramente che lui sia un perseguitato potranno condividere tali manovre, ma spero che se dovesse essere indetto il referendum per l'approvazione dei testi costituzionali, prevalgano gli italiani della trasparenza al potere e della legalità.
Festa Nazionale sotto le coperte

di Andrea Passamonti
Il 17 Marzo, ormai dovrebbero saperlo anche i sassi, ricorre il centocinquantesimo dell’Unità d’Italia. Non c’è motivo di soffermarsi troppo sul perché prendere parte a questa commemorazione, sono state scritte già abbastanza righe più che ragionevoli a riguardo. Piuttosto è necessario aggiungere qualcosa sul come.
Negli ultimi giorni, abbandonata la polemica portata avanti da qualche camicia verde, si è passati all’ennesimo conflitto tra chi proponeva l’istituzione del 17 Marzo come festa nazionale una tantum e chi, adducendo motivazioni economiche, chiedeva di non perdere una giornata di lavoro, specialmente in un periodo di stagnazione economica com’è quello attuale. L’ha spuntata, come sappiamo, il primo fronte, ma non senza polemiche e soprattutto non senza avere in parte snaturato quelle che erano le ragioni della festa.
La conseguenza più evidente della decisione del Consiglio dei Ministri, che per non perdere la mano ha deciso di istituire la festa nazionale per decreto legge, la si può comprendere se si guarda il problema da semplici scolari. Scolari, si capisce, non perché si tratta di un problema di matematica o di logica, di storia o di filosofia, ma semplicemente perché sono gli scolari che probabilmente sentiranno meno la ricorrenza.
Giovedì prossimo scuole e università saranno chiuse. Nessun tipo di attività verrà organizzata nel giorno dell’Unità. È vero, ci sono (rari) casi di scuole che hanno organizzato e organizzeranno seminari, conferenze e lezioni sull’Unità, ma tutto questo, per quanto encomiabile, avverrà in date differenti rispetto a quella che si vuole ricordare. Per i più, il 17 Marzo sarà semplicemente il giorno in cui non si andrà a scuola. C’è chi dice che il giovane che vede improvvisamente rompersi la routine scolastica si chiede il perché di questo “buco” inaspettato, imprimendo nella sua testa il giorno dell’Unità. Se così fosse, però, non si spiegherebbero i servizi dei Tg che annualmente mostrano decine di giovani che cadono dalle nuvole sentendosi chiedere cosa festeggiano il 2 Giugno o il 25 Aprile.
Una soluzione preferibile sarebbe stata quella di organizzare una giornata cogestita da studenti e insegnanti interamente dedicata al Risorgimento e all’Unità d’Italia. In questo modo, senza nessun obbligo, si sarebbero potuti rendere partecipi anche i giovani che probabilmente giovedì rimarranno sotto le coperte. Per gli altri, che come l’Italia si desteranno, non resta che fare una passeggiata ai Giardini Pubblici, a portare un mazzo di fiori a Mazzini e Garibaldi.
Saint Patrick’s Day al Doolin

Il 17 Marzo sarà festa nazionale non solo in Italia, ma anche nella verde Irlanda. Giovedì prossimo, come ogni anno, si festeggia il Saint Patrick’s Day e l’Irish Pub Doolin non poteva non unirsi alla celebrazioni con una serata tutta irlandese: alle birre tradizionali del locale di via Adua si aggiungerà la musica dei The Shire, che non a caso utilizzano i classici strumenti della musica irlandese. Dopo aver festeggiato la nostra Unità, l’appuntamento al Doolin è certamente da non perdere.
giovedì 10 marzo 2011
Nasce il “Movimento 5 Stelle Latina”

di Martina Nasato
In occasione delle prossime elezioni amministrative anche il capoluogo pontino avrà il suo “Movimento 5 Stelle”. Il “movimento politico-culturale” (attenzione: non un “partito”) lanciato da Beppe Grillo nel 2008 ha riscosso grandi consensi in tutta Italia, soprattutto nel Centro-Nord.
Il gruppo di Latina nasce cinque anni fa attraverso la piattaforma informatica del “Meetup”, mediante la quale Beppe Grillo ha permesso ai cittadini, con una simile visione del mondo, di incontrarsi e discutere al fine di produrre iniziative e progetti per la riqualificazione sociale del proprio territorio. A Latina in particolare, i membri del Meetup sono stati protagonisti della campagna Acqua Bene Comune (per il ritorno alla gestione pubblica della rete idrica), hanno organizzato 2 “V-day” (il primo per un Parlamento “pulito” e il secondo per la libertà di informazione). Si sono occupati e continuano ad occuparsi di energie rinnovabili, mobilità sostenibile che non preveda solo parcheggi e finte metro, una vera raccolta differenziata porta a porta ed una netta opposizione al ritorno al nucleare.
La lista civica che ne è nata è composta da cittadini comuni incensurati, qualità ormai rara. Perché, se da una parte è vero che un avviso di garanzia oggi “lo ricevono tutti” e che comunque si è innocenti fino a prova contraria, dall'altra dovremmo evitare di assuefarci allo stato delle cose in costante declino. Pretendiamo di meglio, e, se ci viene offerto di meglio, cogliamo l'occasione.
Le proposte del Movimento 5 Stelle Latina sono concrete e sostenibili, a differenza di tanti progetti presentati finora e mai realizzati, o realizzati in tempi biblici con costi esorbitanti.
Di se stessi dicono “Il Movimento 5 Stelle Latina si propone come unica vera alternativa alla mala amministrazione della nostra città”, mala amministrazione che ha gettato la nostra città agli ultimi posti nelle classifiche nazionali in merito a criminalità, qualità della vita, servizi al cittadino.
L'invito rivolto a tutti è quello di informarsi e, se possibile, partecipare attivamente alle prossime iniziative del Movimento, consultando il sito www.latina5stelle.it .
martedì 8 marzo 2011
Gli Africani nuovi rivoluzionari

di Claudia Giannini
Era il 1965 quando Herbert Marcuse, in “La tolleranza repressiva” e prima ancora ne “L’uomo a una dimensione” riconosceva alle popolazioni del Terzo mondo e in generale ai popoli africani lo status di nuova classe rivoluzionaria. Insieme agli studenti, agli immigrati, ai disoccupati, insomma a tutte le frange della società cui l’integrazione e l’ascesa sociale sono precluse o difficoltose. Lungimirante viene da dire oggi, gettando un occhio a ciò che sta accadendo nei Paesi Maghrebini. Un effetto domino che sta sradicando, partendo dal basso, sistemi dittatoriali che da decenni tengono in scacco le popolazioni nord africane, primo fra tutti il regime di Gheddafi. Lo stesso regime amico del nostro Paese, grazie alla diplomazia da salotto del nostro Presidente del Consiglio, tanto da permettere al Colonnello di vantarsi per aver ottenuto dall’Italia un indennizzo per gli anni di controllo coloniale. Lasciando da parte le possibili implicazioni internazionali, che restano comunque fondamentali, ciò su cui bisogna soffermarsi è il peso valoriale e sociale che hanno gli avvenimenti del Nord Africa. Se pensiamo alla situazione di immobilità democratica e di stallo partecipativo che riguarda il nostro Paese, fanno riflettere le manifestazioni di piazza in Libia o in Tunisia, dove il popolo avanza clamoroso per reclamare i propri diritti, per troppo tempo negati.
Unico barlume di ribellione qui in Italia, rispetto a un sistema dittatoriale a mio avviso in maniera silenziosa e subdola, l’abbiamo avuto con gli studenti nelle piazze. Ecco che quasi come una profezia, le parole di Marcuse tornano in primo piano. Se poi, guardandoci indietro pensiamo alle rivolte di Rosarno, agli immigrati che non ci stanno a subire ulteriori soprusi e discriminazioni, il quadro è completo.
Unica pecca nel filosofo della scuola di Francoforte è che, pur avendo previsto mobilitazioni e rivolte così come si stanno verificando, non ci dice come tramutare il malcontento, il sommovimento e la rivoluzione, in un sistema alternativo che contemperi le esigenze dei più diversi soggetti sociali.
Il problema in ultima analisi è proprio questo. Va bene la rivolta, va benissimo la rivoluzione, ma questo sangue deve tramutarsi in un miglioramento, non nel passaggio di testimone da una dittatura militare a una dittatura, magari addirittura estera, mascherata da missione di pace.
La speranza quindi è che gli attori sociali responsabili dei movimenti, riescano a maturare una predisposizione alla democrazia che nasca dall’interno, limitando l’ingerenza estera a uno strumento d’aiuto, rispetto a un progetto contestualizzato e voluto dall’interno di ogni singolo paese.
Squatter a Londra: la riappropriazione dello spazio

di Martina Nasato
A Londra gli squatter hanno invaso le case sfitte, comprese le super-residenze dei vip britannici e non.
Per la legge inglese non è un reato: se si trova un modo di accedere all'interno dell'abitazione senza essere colti sul fatto, non si è perseguibili. Dopodiché è sufficiente presidiare costantemente l'immobile occupato poiché il proprietario non può accedervi finché c'è qualcun altro dentro. Agli squatter inglesi è persino garantita assistenza legale e consigli tecnici e pratici dall'Advisory Service for Squatters (Ass). A prima vista può apparire come un'ingiustizia colossale, una violazione del diritto di proprietà, anzi, un gravissimo indebolimento del concetto stesso di proprietà privata. Il che appare assurdo se si considera l'efficienza del diritto inglese, estremamente pragmatico, ma sopratutto se si pensa che l'Inghilterra è la patria del pensiero liberale, e che furono proprio i pensatori inglesi a dare il contributo maggiore alla formazione del concetto di “proprietà privata”. Che succede allora? Succede che forse la questione andrebbe osservata in un'ottica diversa. In Inghilterra la cultura dello Stato “assistenziale” è quasi del tutto assente, ma la società anglosassone è fortemente improntata sul modello del “bonum et aequum”. Se una casa è sfitta, allora il proprietario non ne ha bisogno. È un lusso, un di più senza il quale è in grado di vivere benissimo. Se una persona ha bisogno di occupare una casa altrui, correndo il rischio di essere arrestata, ha evidentemente bisogno di un posto dove vivere. È una necessità. Ecco allora che si raggiunge l'equilibrio.
Parallelamente, in Italia (con tutte le differenze del caso, ovviamente), le città sono piene di edifici vuoti e appartamenti invenduti. Gli appalti edili, però, continuano ad essere assegnati senza alcun criterio, con buona pace dei piani regolatori. E se qualcuno occupa un appartamento invenduto e abbandonato dopo la sua costruzione nella maggior parte dei casi non riesce ad ottenere neanche il riconoscimento dell'usucapione maturato.
Quello che resta della DDR

di Lucia Orlacchio
Le immagini della caduta del Muro di Berlino sono impresse nella memoria di tutti noi: il 9 Novembre 1989 i cittadini di Berlino Est in massa si arrampicarono sulla barriera di cemento che da 28 anni separava le due Germanie, per raggiungere l’Ovest. Si avviava cosi il processo di disfacimento della Repubblica Democratica Tedesca (Deutsche Demokratische Republick, DDR), stato socialista nato nel 1949 sotto diretta influenza dell’Unione Sovietica che qui stanziò le sue truppe con il pretesto di difender la DDR dalla minaccia capitalistica dell’USA durante la Guerra Fredda.
Sebbene la DDR sia ormai crollata da molti anni, esiste ancora una sua matrice nella cultura tedesca ed in particolar modo nel cinema contemporaneo: numerosi sono i registi che oggi traggono ispirazione dal regime socialista tedesco e che di questo denunciano sistema, orrori e crimini o ne ricordano melanconicamente stile di vita e consuetudini con particolare sentimento nostalgico per la Gemania Est, definito Ostalgie. “Good Bye, Lenin!” (Becker, 2003) è uno dei film in cui è possibile ritrovare molti dei luoghi comuni dell’ Ostalgie: la Germania dell’Est è vista con rimpianto in modo cieco e ingenuo poiché vengono ad esser dimenticati i tratti dittatoriali del regime socialista ed esaltata l’illusione di tranquillità e ordine di una vita regolata dal potere politico.
D’altro canto il controllo delle autorità sulla vita dei cittadini è contestualizzato in un clima di terrore nel film “Le vite degli altri” del 2006: il regista von Donnersmarck documenta accuratamente la tensione provata nel corso degli anni ’80 da artisti ed intellettuali nello svolgimento di tutte le loro attività, tenute sotto stretto controllo dalla Stasi, la polizia segreta della DDR che si occupava di sicurezza e spionaggio. In questo caso il linguaggio cinematografico documenta e ricostruisce “l’età del sospetto” prestando notevole attenzione alla psicologia di tutti gli individui inseriti nel sistema e quindi anche degli stessi esponenti della Stasi.
E’ chiaro dunque che la DDR non esiste più, ma solo politicamente: la Repubblica Democratica Tedesca infatti continua a vivere nella memoria culturale tedesca che ha ancora bisogno di scavare nel passato per rifondare le basi della propria identità.
Giunone a Norba

di Matteo Napolitano
Il giorno mercoledì 9 marzo ’11 presso il “Museo archeologico civico dell’antica Norba” di Norma (LT) alle ore 17 si terrà un incontro dal titolo “Giunone a Norba, la dea delle donne”.
In occasione della settimana in cui ricorre la festa della donna, un buon motivo per riscoprire gli aspetti storico-archeologici della religione romana e, in particolare, per analizzare la figura della dea Giunone e il suo rapporto con il mondo femminile.
L’ingresso al museo è libero. Partecipiamo numerosi!
martedì 1 marzo 2011
Libera testa in libero Stato

di Pierpaolo Capezzera
“Libertà va cercando ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta”. Questi versi del Purgatorio dantesco, riferiti a Catone l’Uticense possono essere l’emblema di quello che sta accadendo nell’Africa Settentrionale. Queste rivolte, che, in pochi giorni, stanno cambiando l’assetto politico del Mediterraneo e condizionando il mondo intero, sono diverse rispetto alle grandi rivoluzioni del passato e, in generale, all’idea tradizionale di “rivoluzione”. Infatti, ad armarsi e a scendere in piazza sono i giovani universitari e i loro professori, cioè quel mondo colto che, grazie all’istruzione, ha avuto gli strumenti culturali e tecnologici che gli hanno permesso, aggirata ogni censura, di leggere ed interpretare la realtà, andando oltre la falsificazione dei regimi. I media hanno parlato di una rivoluzione “informatica”, ossia di un’organizzazione della rivolta tramite i vari canali della rete, quali social network, blog e siti costruiti ad hoc, cosa che avrebbe permesso di creare una grande vastità di interconnessioni tra la popolazione. Ma è chiaro che non è così e che, dati alla mano, la rete ha avuto un ruolo, ma non certo determinante. Ciò che, invece, è stato a mio parere fondamentale, è che gli artefici delle rivolte di questi giorni sono stati spinti non solo, o non sempre, dalla necessità di “riempire la pancia”, ma anche e soprattutto da motivazioni più profonde: la lotta alla corruzione (che in quei Paesi è pari a quella italiana), la volontà di decidere il proprio destino e, più in generale, il desiderio di una libertà vera, e non del suo surrogato “regalato” dai regimi. Questo tipo di rivoluzione, una vera rivoluzione culturale, può essere paragonata al platonico “Mito della caverna”, contenuto all’interno della Repubblica: secondo il filosofo ateniese, infatti, l’uomo sarebbe come uno schiavo incatenato all’interno di una caverna, con il viso rivolto al fondo, e tutto ciò che vede e percepisce non è altro che il riflesso, l’ombra di ciò che è reale, che sta e vive al di fuori dell’antro, ma che lascia una sua proiezione sul fondo della caverna. Sta al filosofo, l’uomo saggio, liberarsi delle sue catene ed uscire fuori, conoscere la verità. All’inizio sarà folgorato dalla luce, troppo forte per i suoi occhi abituati alle tenebre. Ma, una volta superato questo ostacolo, egli vedrà la realtà per quella che è. Giunto a quel punto, il suo destino sarà quello di rientrare nella caverna e cercare di liberare gli altri uomini, che però non gli crederanno e resteranno nell’oscurità e nell’ignoranza del Bene. Speriamo che questa rivoluzione, che questi “illuminati”, non facciano la stessa fine, ma che riescano a rompere le catene della menzogna e a giungere, uniti, alla conoscenza dell’Uguaglianza e della Libertà.
Cinquantesimo anniversario del volo di Gagarin al G.B. Grassi

di Matteo Napolitano
Il giorno sabato 5 marzo ’11 dalle ore 18.00 presso l’aula magna del liceo scientifico statale “G.B. Grassi” di Latina, via Sant’Agostino, 9, si svolgerà l’evento commemorativo del “cinquantesimo anniversario del primo volo nello spazio del cosmonauta russo Yuri Gagarin”.
Sono previsti numerosi interventi e, per chi lo desiderasse, la visita al planetario situato all’interno della struttura dalle ore 18.30 alle ore 21.30.
L’Agronauta, grazie alla collaborazione con l’organizzatore dell’evento il prof. Enzo Bonacci, sarà presente con uno stand all’interno dell’istituto e disponibile per qualsiasi informazione riguardo l’attività svolta dal 2008 ad oggi come voce e portavoce dei giovani dell’agro pontino.
Il teatro non è un paese per vecchi

di Riccardo Di Santo
Proporre una sera a teatro a Latina è un evento. A sottolinearlo basta la battuta recitata dalla maggior parte delle persone a cui mi sono rivolto: un «Cioè?» ampliato da sfumature quali «No, io a fare queste cose tristi non ci vado» (il sabato sera a teatro) oppure l’onnipresente «E perché scusa?!?». Diciamo che il Teatro, tranne che a pochi, non riscuote decisamente molto successo al di sotto dei 30 anni nella nostra città. Basta osservare l’età media ad uno spettacolo qualsiasi: la maggior parte del pubblico presente ha superato la quarantina giusto per essere ottimisti, ma direi che gli over 60 sono la fetta più cospicua ad occhio nudo. Pensate che molti di noi preferiscono gelarsi stando in mezzo alla strada nella via dei Pub (Via Neghelli per i profani) senza fare nulla, oppure chiudersi in un locale a bere come unica alternativa prima del ritorno a casa o della notte bianca in discoteca. Tutto ciò perché il teatro non riesce a divenire un mezzo di intrattenimento attuale, aperto alla maggioranza delle persone. Un biglietto costa, con lo sconto studenti, circa 20€, cosa che equivale ad una pizza e ad una birra in compagnia; a conti fatti la maggioranza di noi preferisce la bevuta in compagnia con chiacchiere e stupidaggini varie, lo svago meritato dopo una settimana di impegni, piuttosto che “chiudersi” ad avere un impegno culturale che ricorda noiose giornate scolastiche. E’ qui tutta la differenza credo. Se si riesce a trasformare la visione dello spettacolo teatrale in una forma di intrattenimento “viva” che possa far sviluppare il pensiero o perfino dare la forza di aprire la collettività a nuovi punti di vista, allora il tutto può divenire certamente una forma di sviluppo per la stessa società. Maggiore è la partecipazione, maggiore sarà l’interesse suscitato, con conseguente aumento della domanda di tematiche culturali. Maggiore è la domanda (economia docet) allora tanto maggiore diverrà l’offerta, con la creazione di nuove opportunità di lavoro, senza andare a togliere il guadagno ad altri settori dell’intrattenimento (una birra in compagnia ci sta sempre dopo uno spettacolo). Ragioniamo su questa possibilità, non abbiamo nulla da perdere, tranne la nostra ignoranza.
“Il Grinta”: il Western incontra il terzo millennio

di Matteo Napolitano
“Vado, l’ammazzo e torno”, sembra essere proprio questo il filo conduttore morale dell’ultimo capolavoro Western dei fratelli Joel ed Ethan Coen che si colloca, a mio parere, tra le migliori pellicole in circolazione.
I presupposti sono tutti validissimi: “Il Grinta” (Jeff Bridges), “Rooster” Cougborn, è un vecchio agente federale dal grilletto facile imbevuto di whiskey, fumo e sangue freddo che viene assoldato dalla giovane Mattie Ross (Hailee Steinfeld), tenace e intelligentissima ragazzina di quattordici anni, per dare la caccia a Tom Chaney (Josh Brolin) l’assassino del padre che vaga per l’Arkansas in compagnia di “Lucky” Ned Pepper (Barry Pepper) e la sua banda criminale. Sulle tracce del temibile Chaney c’è anche LeBouef (Matt Damon), un Walker Texas Ranger che vuole catturare il malfattore per via della grossa taglia che pende sulla sua testa dopo l’omicidio di un senatore texano. Per ovvie coincidenze il destino del Grinta e di Mattie si verrà ad incrociare con quello di LeBouef per un succedersi di eventi molto avvincenti legati al desiderio di vendetta e alla gloria personale dei protagonisti.
Provate a condire questa trama intrisa di nomi e soprannomi, in puro stile western, con la classica ambientazione fatta di terriccio, vento, pistole e “Saloons” e vi assicuro che il gioco è fatto.
Il film è tratto dall’omonimo testo di Charles Portis (“The Grit”), peraltro già soggetto di ispirazione per Henry Hathaway che condusse John Wayne all’oscar, di cui i fratelli Coen hanno dato una rilettura classica e fedele senza trascurare però le loro inclinazioni ad esempio, il modo schietto e diretto di leggere la violenza.
Forse proprio per questo elemento, possiamo dire, di “fedele originalità” il film si adatta molto bene ai nostri tempi.