martedì 9 febbraio 2010

Il mito del passato


di Stefano Pietrosanti
Oggi mi è capitato di ascoltare il Ministro Alfano impegnato nel suo infaticabile perorare l’immunità parlamentare come uno strumento di civiltà che dovrebbe tendere a dividere meglio e con comuni vantaggi il potere legislativo, esecutivo e giudiziario, ergendosi a difensore della Carta Costituzionale come Costituente l’ha fatta. Non mi perdo in inutili lungaggini sul clima storico dell’epoca, sul rischio di giudici e funzionari nominati dal regime e ancora in carica e sulle vicissitudini dell’attuale governo, ma non posso trattenermi dal dire che – ora come ora – tanto varrebbe buttarla a mare questa Carta, simulacro del niente dietro. E’ una provocazione, ovviamente, ma voglio che qualcuno si soffermi a riflettere su quanto profondo e maleodorante sia il fallimento di quei grandi uomini sempre osannati che hanno fondato lo stato dopo la lotta partigiana. Coraggiosi, e colti, e condivisibili, ma che maestri tremendi devono essere stati, se questo è il risultato. L’Italia, nei suoi momenti peggiori, è stata sempre un paese provinciale e connaturato a questo mito del passato. Dopo l’unificazione, due generazioni irrisolte passarono il tempo a sospirare di non aver potuto partecipare al ’48, mentre quelli che l’avevano vissuto da protagonisti lo avevano in buona parte rinnegato nei fatti, veglianti lagnosi sulla salma fredda del sogno mazziniano. Dopo la guerra, mentre la generazione di Vittorio Veneto si leccava le ferite, bande di giovinetti cresciuti nel mito dell’Ardito col coltello in bocca appoggiavano entusiaste l’uomo della provvidenza, anche scappando dai collegi per partecipare alla marcia sul niente, giusto per sentirsi un po’ truppe irredentiste anche loro. Tacendo della bella ed evidentemente effimera parentesi della resistenza e della costituente, giovani cresciuti col mito della rivoluzione inconclusa si univano a giovani col sogno del nuovo per fare un grande – a volte entusiasmante e commovente – pasticcio di parole in libertà, così dopo di loro altre due/tre generazioni sarebbero vissute col mito del ’68, nella speranza disperata di emularlo e riviverlo, mentre gli ex protagonisti avrebbero fatto i veglianti lagnosi sulla salma fredda del sogno rivoluzionario. Forse è il caso di piantarla. Se non ci piace l’oggi, vuol dire che lo ieri non era questo gran che, altrimenti avrebbe prodotto frutti forti e non marci. Se vogliamo ripulirci, rifondarci, l’unica cosa che ci rimane è ripensare la realtà e per questo serve calma, studio, sforzo, oggettività. Dobbiamo ricercare nel passato, con sano scetticismo, i geni recessivi che non hanno visto la luce, adattarli all’oggi, pensare nuove idee; come intuì ai suoi tempi Gobetti, dobbiamo educare noi stessi, evitando miti, essendo sospettosi davanti ad ogni culto, ad ogni verità rivelata e allo stesso tempo imparando quella cosa rara che è la fedeltà a se stessi e alle proprie parole. Sicuramente è meno divertente del gridare alla rivoluzione, alla Grande Riforma, alla rifondazione del passato mitico e giusto, ma sull’altare delle bugie generose troppi buoni futuri sono stati sacrificati.

Nessun commento:

Posta un commento