martedì 30 marzo 2010

“Schede” di riflessione


di Matteo Napolitano
Non ho mai avuto e probabilmente mai avrò una palla di vetro per fare le mie dissertazioni, e modestamente la lascio volentieri ai maghi o agli stregoni. Chi leggerà quest’articolo avrà già conosciuto l’esito delle elezioni regionali, non solo nel Lazio, e si sarà già fatto un’idea o quantomeno un piccolo prospetto su quello che saranno gli anni a venire. L’unica cosa che possiamo andare ad analizzare sono i fatti accaduti in periodo pre-elettorale, fatti che lasciano pensare ad un paese che inquadrato dallo specchio delle realtà locali, sembra non avere alcuna voglia di cambiare e di maturare, né politicamente né tantomeno civilmente.
Abbiamo assistito in questi ultimi mesi ad episodi che farebbero accapponare la pelle addirittura al povero Montesquieu, che di certo non immaginava questo nel suo ideale di politica, abbiamo visto la negligenza dei burocrati di partito per la presentazione delle liste nel Lazio, abbiamo guardato le manifestazioni di faziosità e vittimismo di un leader populista, abbiamo sentito parlare di voti “inquinati” dalle mafie aimè soprattutto nel sud Italia, abbiamo toccato con mano la negazione del diritto di parola e di opinione e dopo tutto questo, ma non solo questo, siamo giunti al fatidico giorno delle urne.
Le urne già, quelle cabine buie e nere che tanto fanno parlare e promettere e che molto parleranno anche questa volta, hanno visto facce di tutti i tipi: impaurite, insicure, perplesse ma alcune anche convinte e speranzose, come la mia ad esempio, perché ha percepito nella figura della Bonino un’opportunità, un barlume di tenue speranza, un vento di serietà e laicità per una nave in continua tormenta com’è quella dell’opposizione italiana, proprio questa donna piccola ed esile che ha sempre fatto parte di un mondo diverso e lontano dalle logiche partitiche nostrane.Proprio nel momento in cui mi ritrovo a scrivere sono usciti i primi dati totalmente fuorvianti e che quindi non permettono di tirare alcuna conclusione, generalmente ciò che si dice prima di una battaglia, che sia un corpo a corpo o una tornata elettorale non ha importanza, è “che vinca il migliore!” ma oggi in questo caso dobbiamo dire “che vinca LA migliore!”

IL DIRITTO ALLA CRONACA


di Riccardo Di Santo
Giovedì 25 marzo, come gran parte di altri miei connazionali, sono rimasto fino a mezzanotte incollato alla televisione ad osservare il baraccone allestito da Michele Santoro. In un palasport gremito di gente entusiasta per la loro partecipazione, ho visto sfilare alcuni dei personaggi chiave della informazione nazionale. Uno dopo l’altro (neanche fosse una squadra di serie A), entravano al boato che accompagnava il loro nome: Gad Lerner (bassa intensità), Sandro Ruotolo (media intensità), Marco Travaglio (intensità pari ad un concerto dei Led Zeppelin). E poi tanti altri, dalla figlia di Enzo Biagi in tribuna, a Cornacchione e il suo monologo diventato ormai un tormentone, fino a Luttazzi e la sua satira pungente, offensiva forse, ma di certo efficace. Il punto chiaro di tutta questa giostra mediatica è stato uno solo: dire «NO» alla censura. Ma non la censura normale, quella totalitaria che vieta espressamente ogni forma libera di espressione (art. 21 costituzionale) che è un muro non scritto, ma semmai alla censura“all’italiana” quella che dal dopoguerra ad oggi, mascherandosi sotto numerosi nomi diversi (buoncostume, buonsenso, faziosità, illiceità) ha sempre agito silenziosa ma riconosciuta da tutti anche se impotenti. Luttazzi è stato duro, volgare in alcune parti, ma era fuori fascia protetta e non si è mai spinto al di là del limite; Travaglio è stato preciso come sempre, ridicolizzando questi cosiddetti potenti di turno non attraverso frasi intellettuali o elevate ma attraverso le loro stesse parole e semplici ragionamenti («Le elezioni regionali sono regolate da Leggi Regionali, chi l’avrebbe mai detto?»). Non si può non nominare quella che chiaramente è stata la risposta a tutte le farneticazioni del Premier e alle credenze dei suoi elettori «Come fai a dire che Berlusconi è un mascalzone? Per lo stesso motivo per cui se di notte vedo un tizio sudaticcio con un coltello insanguinato in mano, non penso subito “toh, un cuoco”». La televisione deve essere libera, se poi uno o più programmi non piacciono o non interessano si può sempre cambiare canale liberamente.

martedì 23 marzo 2010

Il Partito dell’amore


di Stefano Pietrosanti
La cosa più fastidiosa del guardare la piazza del PDL è la momentanea espressione contratta sul volto del caudillo quando scende dal palco. L’espressione simbolo della morte del conservatorismo italiano. In un periodo di forte riflusso e incertezza, in cui teoricamente proprio governi conservatori moderati - basti vedere la Merkel con tutti i suoi limiti – tendono a dare le risposte richieste dai vari popoli dell’Occidente, noi ci troviamo senza un solo partito conservatore rappresentativo in tutto il nostro agone politico. Con il riunirsi di quella piazza, in cui l’unica aspirazione politica sembra un vago peronismo, si celebra questo: l’aspirazione alla grande riforma, allo stravolgimento, all’arrivo di una sorta di carnevale perenne sorvegliato da un bonario padroncino alle cui domande retoriche il popolo è chiamato a rispondere con giubilanti sì o no. Da noi non c’è un partito conservatore, noi abbiamo il partito dell’amore. Non avere a disposizione serie forze conservatrici è grave, soprattutto in momenti di crisi, e ora faremo i conti con questo: sembra mancare a questo paese il senso di comunità, di radice e il gusto di riguardare con calma le foto di famiglia. Né siamo stati capaci di sviluppare un comune attaccamento che vada oltre la mera facciata per padri, nonni e parenti vari. Da questo discende lo scarso rispetto che abbiamo per noi stessi e quello nullo dimostrato giorno per giorno dalla nostra classe politica verso i propri elettori. Scarso rispetto che si estrinseca in pieno nelle manifestazioni di piazza – soprattutto in quelle della destra – con la ridda sempre irrealistica riguardo il conteggio dei partecipanti, con l’accettazione di bandiere e forze che si fanno portatrici di messaggi esplicitamente eversivi, con l’espressione contratta sul volto del caudillo. Una delle grande intuizioni di un nostro antenato, Mazzini, fu il riconoscere alla politica un ruolo pedagogico. Liberale, fu uno dei primi tra questi che approntarono idealmente l’apparato necessario a difendere liberalismo e libertà: l’associazionismo come motore di progresso e la vita pubblica come percorso di crescita educativa capace di rendere libero l’uomo che di per se, nella spaventata chiusura in se che gli è propria, libero non è. E l’unico maestro capace è colui che rispetta l’alunno, certo non chi sfrutta i suoi ben conosciuti difetti di natura per fascinarlo e asservirlo. Perché questo è, era e sarà Berlusconi: un cinico venditore che dispensa abbracci a casalinghe gabbate, in se profondamente schifato dalla mediocrità dei clienti, se non altro perché riconosce in questa la sua stessa mediocrità. Degno erede delle prime leaders del partito dell’amore, rimane un prostituto che di notte, finita la clientela, rimarrà nel letto a meditare con espressione contratta la sua solitudine.

Silvio, la piazza e il (vero) Grande Fratello


di Andrea Passamonti
In 1984, il capolavoro di George Orwell, l’immagine più rappresentativa dell’oppressione del Grande Fratello è quella in cui un importante funzionario del governo cerca di convincere il protagonista Winston, a suon di scariche elettriche, che le quattro dita che tiene alzate davanti a lui sono in realtà cinque. «Come posso fare a meno di vedere quello che ho davanti agli occhi? Due più due fa quattro». E il funzionario: «A volte, Winston. A volte fa cinque, a volte tre. A volte fa cinque, quattro e tre contemporaneamente. Devi sforzarti di più. Non è facile diventare sani di mente».
Ecco, forse la conta del popolo a piazza San Giovanni non è l’elemento più importante del sabato dell’amore, ma è un utile strumento per (provare a) capire Berlusconi e la sua piazza.
Centocinquantamila? Un milione? Non prendiamoci in giro. Qualsiasi cifra avesse snocciolato il capo, nessuno in quella piazza avrebbe dubitato delle sue parole. «Ormai amavano il Grande Fratello».
L’esposizione dei risultati del governo è solo una formalità. Non importa se questi vengano sistematicamente smentiti dai fatti.
Così come le nuove promesse che ad ogni nuovo comizio devono essere rinfrescate.
Già utilizzate quelle sulla riduzione delle tasse, abolizione dell’ICI e cancellazione del bollo auto, non resta che attaccarsi alla promessa di piantare cento milioni di alberi e a quella di sconfiggere il cancro (Non scherzo, è riuscito a dirlo). E come se non bastasse la «GRANDE, Grande, grande riforma della giustizia».
Il popolo esulta, lo incita, lo acclama. In realtà lo avrebbe acclamato anche se avesse promesso di ritrovare Atlantide.
E guai a contraddire il dato del partito sul popolo del Sultano altrimenti, come è successo alla polizia rea di aver diffuso altri dati, si passa per gente «in preda a stress o crisi etilica». In effetti «non è facile essere sani di mente».
Il più grande limite della piazza di Berlusconi, al contrario di altre che esagerano con i numeri allo stesso modo, è che si autoconvince della propria imponenza. Se non fosse celebrato in modo così ostentato, il Premier non darebbe uno spettacolo così contraddittorio e illiberale come quello di sabato. Illiberale e contraddittorio come la preghiera finale, il “Patto per la libertà”, firmato dai candidati governatore nelle mani di Berlusconi in barba al federalismo e all’autonomia regionale. Uno spettacolo raccapricciante.
Un popolo che non ha più il senso dei numeri e delle parole più che un popolo della libertà è un popolo di sudditi.
Forse non è un casualità che il funzionario di 1984 appartenesse al Ministero dell’Amore e qui si parli di Partito dell’Amore. In ogni caso la certezza riguarda la prossima iniziativa del governo: la GRANDE, Grande, grande riforma delle matematica. Da domani due più due farà cinque.

martedì 16 marzo 2010

13 Marzo: quelli della rivoluzione gentile


di Martina Nasato
ROMA - Sabato 13 Marzo, alle 14,00, Piazza del Popolo era gremita: decine di bandiere del PD, ma anche dell'IdV, di Sinistra Ecologia e Libertà, dei Verdi, di Rifondazione, del PSI. Sventolavano persino i volti di Che Guevara e di Berlinguer. Sulla maglietta di una signora era stampato il viso di Gramsci. I Giovani Comunisti/e, nel loro stand, vendevano panini “alla Milioni”. Duecentomila persone, almeno, in quella piazza, per difendere la Costituzione e la democrazia traballante. Genitori con i figli, pensionati, ragazzi e ragazze da tutta Italia, studenti, precari e liberi professionisti, schiacciati gli uni contro gli altri, sostenendo i propri ideali. Sul palco Paola Maugeri, vj di Mtv, conduceva l'evento. Il primo a parlare è stato Nencini (PSI), il quale, accolto tiepidamente dalla folla, ha espresso solidarietà al Presidente Napolitano. Subito dopo Emma Bonino ha infiammato gli animi con parole di speranza, molto diverse da quelle del “regime da basso impero, prepotente perché moribondo”. Ha concluso, fra l'acclamazione popolare, citando Gandhi (“siate voi il cambiamento che di fatto volete vedere”) e Anna Politkovskaja (“per conquistare la fiducia della gente, i sentimenti tiepidi non bastano”). Ha poi preso parola Bonelli (Verdi): “Berlusconi vi ha definito una grande ammucchiata. Noi rispondiamo che questo non è il lettone di Putin”. Ha concluso lanciando un mazzo di fiori, segno della rivoluzione gentile. L'apoteosi si è raggiunta con l'intervento di Nichi Vendola, il quale si è guadagnato un'ovazione ammettendo gli errori della sinistra che non ha difeso la Costituzione quando e come avrebbe dovuto. Ha puntato il dito contro la criminalizzazione dell'immigrato, e soprattutto contro un “sovrano legibus solutus in un medioevo post moderno”. L'entusiasmo della piazza era palpabile. Quando Di Pietro ha preso parola l'atmosfera era già caldissima, terreno fertile per i suoi modi veementi. Il segretario dell'IdV, più di tutti, si è scagliato contro il “despota Berlusconi”, sostenendo che adesso l'unico argomento del suo partito sarà liberare il paese. L'intervento conclusivo è stato affidato a Bersani (PD), il quale è stato accolto con applausi dai suoi, ma con molti fischi dagli altri. Le sue parole, per la verità, poco incisive, hanno acceso discussioni fra i manifestanti. Il sorriso alla piazza è stato restituito da Simone Cristicchi, ultimo artista ad esibirsi, fra i tanti altri, noti o emergenti. Alle 17, 15 la grande manifestazione ha avuto termine, ma l'entusiasmo non si era spento: gli striscioni, i cartelli e le bandiere erano tenuti ancora alti, mentre il mare di folla si scioglieva in tanti fiumi di persone sorridenti. Il 13 Marzo qualcosa si è mosso: la sinistra ha mostrato delle carte vincenti e un volto -finalmente- propositivo. Ancora lontani dal cambiamento vero, ma finalmente pronti a cambiare. Sabato ognuno di noi è tornato a casa con un pizzico di speranza in più.

Forza Emma


di Claudia Giannini
Scontro tra donne. O forse è meglio dire scontro fra mondi. Perché Emma Bonino e Renata Polverini hanno due storie diverse. La prima intraprende la sfida regionale forte di un percorso politico che l’ha sempre vista partecipare alle più importanti vicende italiane sul campo dei diritti. La seconda c’è capitata un po’ per caso, spinta da chissà quale buon vento, lasciando le battaglie sindacali per ambire a un posto estremamente allettante.
Due mondi quindi, ma, a mio avviso, sul primo c’è molto di più da dire. Emma Bonino entra in politica nel 1975, quando si fa arrestare volontariamente per procurato aborto e in quegli anni inizia forse la sua battaglia più importante, appunto quella sulla legalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza. Sempre in prima linea a sostegno dei diritti delle donne, lotta duramente con un’Italia cieca e bigotta, utilizzando qualsiasi arma, scioperi della fame e della sete compresi.
La figura di Emma Bonino è inoltre associata a lotte contro la fame del mondo, in favore della difesa della democrazia e dei diritti civili. E quella delle regionali è l’ennesima sfida, stavolta contro un grande nemico: la sfiducia nella politica. Non a caso ha scelto come slogan “Ti puoi fidare” e a sentirla parlare non ci sono dubbi. Un esempio? Il nucleare. Non si ferma a ribadire la reintroduzione delle centrali nel territorio pontino, ma promuove un piano alternativo a livello nazionale, comprendendo che i problemi della regione possono essere risolti solo in un contesto più ampio, appunto quello nazionale. Un altro esempio? L’occupazione femminile. Non si ferma a lodare “quelle che ce l’hanno fatta” ma parla di asili nido e servizi sociali.
Un programma pratico e deciso, proprio come è lei. E allora non ci resta che sperare che i cittadini del Lazio capiscano dove si può riporre la propria fiducia e scelgano di fidarsi non di una donna, ma di una grande politica. Forza Emma.

martedì 9 marzo 2010

Ignoranza Docet


di Riccardo Di Santo
Sulla riforma Gelmini si è scritto e parlato tanto, sino al limite del buongusto, sia nell’ambito del pro che del contro. E’ una favola già letta infinitamente a tutti gli studenti per cercare di portarli a dormire: tranquilli ragazzi “ghe pensi mi” al vostro futuro. E molti, come tante pecorelle, si sdraiano col sorriso convinti che ci sarà il castello dorato di una istruzione che funziona alla fine del sonno, maledicendo invece quegli altri ragazzacci indisciplinati che non ne vogliono sapere di andare a dormire. Da sempre sono stato sfavorevole alle riforme che imponevano tagli alle risorse scolastiche (già magre di loro), e per questo sono stato appellato nei più svariati modi: comunista, fancazzista, indisciplinato, bandito, terrorista, credulone della sinistra, manipolato dai baroni dell’università, questi solo per citarne alcuni. Sono uno studente dell’università pubblica “La Sapienza” al II anno di Giurisprudenza come tanti altri prima di me e come tanti altri ne verranno. Una brutta passione in Italia quella del diritto : tanti laureati, poco lavoro e soprattutto una grande sfortuna per tutti coloro che tengono alla legalità, dato che appena raggiungi un minimo di coscienza tecnica della materia ti rendi conto delle mostruosità che vengono concepite sia in quel luogo di intrighi di potere che è Palazzo Chigi sia nell’annesse scuderie (Palazzo Montecitorio e Palazzo Madama) che svolgono da troppo tempo un ruolo di pura formalità legislativa. E come non potrebbero? Le urla della gente sono indirizzate da molto tempo su temi molto più importanti o infinitamente più miseri di quello del diritto e della legalità che tanto stavano a cuore a persone come il giudice Giovanni Falcone. E allora cosa vuoi che sia che alle scuole superiori vengano di fatto quasi totalmente ridotte, se non eliminate, le ore dedicate all’insegnamento del Diritto e dell’Economia? E qui monta la rabbia del cittadino informato: ma come può solo per un momento questa plebaglia filosofica al governo pensare di fare una riforma per il futuro e troncarne contemporaneamente le basi? La democrazia si regge sul diritto e sulle leggi come la nostra costituzione (tanto ignorata dai nostri parlamentari), cosi come sull’economia che ormai svolge un ruolo quotidiano nell’informazione degli eventi che ci circondano. Non si può essere cittadini maturi senza un’adeguata conoscenza del nostro diritto e degli eventi economici intorno a noi, ma solo sudditi più ubbidienti. Su un muro della Facoltà di Giurisprudenza sta scritto “Le armi ci hanno dato l'indipendenza, le leggi ci daranno la libertà” mai quanto oggi questa frase è tanto vera.

“Ricordare” le donne


di Matteo Napolitano
Tutti, a scanso di equivoci, sanno che l’8 marzo di ogni anno ricorre la “festa” delle donne, ma in pochi conoscono l’origine e il significato vero di questa giornata aldilà delle bellissime mimose o delle rose che la rappresentano in tutto il mondo (e che magicamente lievitano nel prezzo).
L’origine della festa dell’8 marzo risale al 1908, quando a New York un gruppo di operaie di un’industria tessile decise di scioperare contro le miserevoli condizioni in cui erano costrette a lavorare e in ogni modo a vivere, la protesta venne portata avanti per più di qualche giorno ma proprio l’8 marzo di quell’anno i proprietari della fabbrica decisero di serrare le uscite e lasciar divampare un incendio che ferì mortalmente 129 operaie, tra cui anche alcune italiane migrate negli Stati Uniti.
Nel titolo dell’articolo ho volutamente omesso la parola “festa” poiché la festa è un momento di allegria e di gioia, un momento in cui si celebra un evento generalmente positivo, l’8 marzo deve essere ricordato e non festeggiato. Deve essere ricordato il fatto storico per cui delle donne sono morte, si sono “sacrificate” per i loro diritti, per la loro condizione di miseria e di denigrazione delle più elementari libertà dell’individuo.
Quello che ci aspettiamo da questa giornata è quindi un rafforzamento degli ideali di uguaglianza e di parità senza dimenticare le vessazioni del passato e purtroppo quelle del presente.Un bacio o un gesto d’affetto poi, non possono essere negati a nessuno.

martedì 2 marzo 2010

Le parole sono importanti


di Andrea Passamonti
“Le parole sono importanti” ripeteva seccato Nanni Moretti alla giovane giornalista in Palombella rossa. Oggi quel monito sembra essere stato completamente dimenticato da molti redattori e direttori di importanti mezzi di informazione. Così capita di dover ascoltare per ben due volte dalla bocca dell’anchorman del Tg1 la notizia di un’inverosimile assoluzione dell’avvocato David Mills. Ma è bene fare un po’ d’ordine.
David Mills è stato condannato in primo e in secondo grado per corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza, in particolare per aver ricevuto 600000 dollari versati sul suo conto da Silvio Berlusconi, attraverso il manager Carlo Bernasconi, al fine di testimoniare il falso in due processi in cui è tuttora imputato l’attuale Presidente del Consiglio.
Lo scorso 25 febbraio, e qui veniamo all’attualità, le Sezioni Unite della Cassazione, sotto richiesta del Procuratore Generale, dichiarano il reato prescritto e, di conseguenza, annullato il verdetto in secondo grado. Ed ecco il punto cruciale della vicenda.
L’assoluzione è cosa ben diversa dalla prescrizione, in quanto la prima riconosce l’innocenza dell’imputato mentre la seconda determina l’estinzione di un reato in considerazione dell’eccessivo tempo trascorso.
Non a caso la stessa Cassazione ha confermato il risarcimento di 250000 Euro alla Presidenza del Consiglio per danni d’immagine.
Questo ragionamento non deve essere passato per la testa del Direttore del Tg1 Minzolini, che ha propeso per una interpretazione piuttosto fantasiosa.
La protesta impazza per il web, ma l’Italia è uno degli ultimi in Europa per quanto riguarda gli utenti regolari di Internet (sotto il 40% della popolazione) insieme a Romania, Cipro e Portogallo. Nessuna sorpresa dunque se i cittadini che si informano solo attraverso il Tg1 si dovessero chiedere il motivo di un continuo accanimento nei confronti di Berlusconi: per quale motivo un corrotto “assolto” dovrebbe avere un corruttore condannato?
Questo nuovo modo di fare giornalismo è un insulto ai giornalisti, all’informazione, all’esattezza delle parole. Il tutto appellandosi a una presunta libertà. Forse la risposta migliore a queste magagne l’ha data Philip Roth. Nell’intervista concessa al Venerdì di Repubblica lo scrittore americano ha “scoperto” di aver concesso, senza saperlo, un’intervista a Libero in cui si diceva insoddisfatto da Obama. Roth smentisce tutto, controlla le interviste rilasciate e quella a Libero non risulta. Irritatissimo chiede cosa vuol dire Libero in inglese. La giornalista del Venerdì traduce. E Roth: “Vuol dire che questi sono liberi di fare tutto quello che gli pare?”

Riflessione sull’Europa


di Stefano Pietrosanti
Nella realtà di questi giorni che vede l’euro minacciato da una forte tendenza speculativa, si concretizza la fragilità della costruzione che ha avvolto i popoli europei dopo la fine della Guerra. Questa si estrinseca nella forma di unione commerciale e non politica che l’Europa si è data e nei sistemi governativi dei singoli stati nazionali che, dispensatori di servizi sociali generosi, hanno mantenuto la vanità perdendo la concretezza e la potenza nel vergognoso periodo di autorità limitata segnato dalla Guerra Fredda. Dovendo cercare il male peggiore arrecato all’Europa dai Fascismi, indicherei l’inquinamento delle simbologie e-motive e dei registri linguistici cui prima gli stati potevano facilmente attingere nel dialogo coi propri popoli, un pozzo semantico che non doveva per forza puzzare di zolfo e che poteva anche dare sviluppi positivi, poiché effettivamente legami di terra e sangue portano i popoli a riconoscere in un’entità soprastante, in un governo, il diritto all’azione in nome comune. I Fascismi hanno distrutto gli strumenti con cui più facilmente si sarebbe potuta costruire la sovranità Europea e la dignitosa rappresentanza comune dei comuni interessi, ossia le simbologie forti; hanno reso sospettabili, fumose, tutte le manifestazioni di volontà di potenza, anche dove queste non fossero coincidenti con volontà aggressive. Proprio l’America ci dimostra che – forse purtroppo – il successo di uno Stato non è nell’essere capace di offrire ai propri cittadini servizi efficaci ed efficienti, ma nella capacità di mobilitarlo, di farlo sentire partecipe attorno al sentimento di ciò che è comune, nel bene come nel male. Nel dargli dei legami di terra e sangue da difendere. L’America ci indica in secondo luogo che il concetto di “sangue”, ben lontano dalla visione nazista, è inefficacie come concetto razziale, ma efficacissimo come concetto culturale. Il “sangue” è la linfa di cultura e comune sentire per cui i popoli sono disposti allo sforzo, al mobilitarsi. Questi sentimenti sono sentimenti conservatori, nel senso asettico di conservazione e questo ci hanno tolto i totalitarismi: la possibilità di essere conservatori, di guardare al nostro passato con la fierezza del contadino per la sua terra. Pare che davanti alla minaccia alla moneta unica Francia e Germania si siano decise a promuovere il conferimento di una pur minima autonomia politica alla Commissione Europea e al neo-eletto Presidente. Non posso dire, in tutta coscienza, se sia un buon segno, ma credo che se mai si dovesse fare l’Europa come governo, questo non potrà nascere se non promuoverà e riconoscerà la sua terra e il suo sangue. Ora sono passati settant’ anni, abbiamo costruito, seppure tra molte menzogne, la pace e abbiamo toccato vette di prosperità e bellezza di cui non credo ci rendiamo conto. Mai come oggi ci sarebbe tanto da conservare, da difendere, da porre dietro il drappo di una bandiera.