martedì 29 giugno 2010

Watergate: ovvero quando l'intercettato è un Presidente


di Martina Nasato
Ultimamente, qui in Italia, è tutto un discutere sull'urgenza e la necessità di questo ddl sulle intercettazioni, alias “legge bavaglio”. Chi invoca il diritto alla privacy e chi si appella al diritto di cronaca e alla libertà di informazione, chi richiede la massima segretezza per le indagini giudiziarie e chi denuncia la fortissima limitazione proprio degli strumenti di indagine. Ancora, chi chiede ad un pubblico adorante: «Volete essere tutti intercettati?» per sentire un coro di «No!» a comando, e chi, in preda all'esaltazione grida: «Intercettateci tutti!» arrivando quasi a giustificare regimi di polizia altrettanto non democratici. Negli Stati Uniti, circa quarant'anni fa, si verificò uno scandalo senza precedenti, che sconvolse l'opinione pubblica mondiale, il “Watergate”. Esso venne alla luce solo grazie alla grande libertà di cui gode da sempre la stampa statunitense e alle intercettazioni. Tutto ebbe inizio la notte del 17 giugno 1972, con quello che sembrava un tentativo di furto da parte di cinque uomini presso la sede del comitato elettorale del Partito Democratico, nell'hotel del Watergate Complex di Washington. All'epoca il Partito Repubblicano del presidente Nixon perdeva consensi a causa soprattutto della guerra in Vietnam, e quando si venne a sapere che i cinque arrestati al Watergate Hotel erano entrati per riparare delle microspie che avevano piazzato alcune settimane prima e che, soprattutto, si trattava di persone collegate al Comitato per la Rielezione del Presidente Nixon, l'apertura di un'inchiesta fu inevitabile. Due giornalisti del Washington Post, Woodward e Bernstein, vennero a conoscenza dei fatti e li pubblicarono, portando l'attenzione dei media sull'accaduto. Per paura di essere coinvolto, Nixon ostacolò le indagini, poi negò di averlo fatto e di essere a conoscenza delle stesse. Quando i giudici chiesero al Presidente le registrazioni effettuate da un apposito sistema presso la Casa Bianca, questi si rifiutò per “ragioni di sicurezza nazionale”, poi pretese e ottenne l'allontanamento dei magistrati responsabili dell'inchiesta. In seguito, messo sotto pressione dall'opinione pubblica, anche grazie alle inchieste pubblicate dal Washington Post, Nixon rese pubblici solo alcuni frammenti delle registrazioni, che risultarono in larga parte fortemente danneggiate, ma che comunque fecero emergere le azioni ai danni dell'opposizione e i successivi tentativi di depistaggio delle indagini . Finalmente, nel 1974 i giudici misero sotto accusa sette collaboratori di Nixon. Nello stesso anno vennero scoperte altre tre registrazioni (delle quali una in particolare fu definita “la pistola ancora fumante”) che provavano come nel 1972 Nixon in persona avesse dato ordine all'FBI di insabbiare lo scandalo Watergate. Il Presidente presentò le dimissioni il 9 agosto 1974, per evitare l'ormai imminente impeachment. Quel che più d'ogni altra cosa dovrebbe saltare agli occhi degli italiani oggi, è il ruolo fondamentale che ebbero quarant'anni fa, dall'altra parte dell'Oceano, le registrazioni telefoniche la stampa libera e non condizionata dal potere politico: è solo grazie a questi due elementi che la giustizia statunitense è venuta a capo della vicenda in poco tempo e, soprattutto, che il popolo americano ha saputo la verità. Perché anche i presidenti a volte vengono intercettati e devono rispondere delle loro azioni.

Mi scusi presidente


di Riccardo Di Santo
Egregio Presidente,
mi scusi se arrivo a osare scriverle in maniera cosi diretta ma in quanto cittadino italiano sento verso di lei una sorta di affezione che la ritrae come padre della nostra Repubblica e, come tale, unico al quale rivolgere idee, commenti, critiche e richieste di aiuto. Vede, ho seguito da vicino il suo incarico fin dall’esordio, un po’ per passione verso le nostre istituzioni e un po’ per dovere essendo io uno studente di giurisprudenza: si fidi sono state troppe le occasioni in cui avrei voluto parlarle, farle domande, rivolgerle preghiere affinché spiegasse, non solo a me, ma all’Italia intera il perché di tante vicende. Il nostro è il paese dove fare domande o è da sciocchi o è da senza paura; un paese dove ti definiscono fazioso, mafioso, incompetente se hai fortuna, dove ti sostituiscono, ti allontanano o ti ammazzano se sei sfortunato o particolarmente fastidioso nel chiedere. Non mi giudichi come populista signor Presidente, la verità è che noi le sappiamo tutti queste cose dal primo all’ultimo: vada a chiedere a Torino come a Lecce e vedrà che noi cittadini sappiamo il perché e il come di tante cose. Ma di discorsi simili sul buio della nostra storia ne riceverà fin troppi e me ne rammarico, quindi intendo parlarle più del concreto che delle nostre vergogne nazionali. Vede, concordo con la definizione che la prassi e la giurisprudenza forniscono delle sue funzioni, come quelle di un controllore e di una figura centrale della rappresentanza nazionale, ma non le condivido. La costituzione è la nostra parola resa scritta, il nostro sangue versato dai tedeschi come dai mafiosi e lei ne è, oltre che il rappresentante, anche il difensore, colui che da voce ai 60 milioni di italiani che trovano rifugio in essa. L’interpretazione delle sue funzioni non può essere solo letterale ma deve basarsi sul buon senso. Berlusconi offende Costituzione e Magistratura? Gli dica in faccia che lui è solo servitore dello stato e giammai superiore a noi o alla nostra carta e lo tacci una volta per tutte. Dice che la Corte Costituzionale è faziosa? Gli sbatta in faccia il suo populismo respingendolo con la rigidità della sua erroneità e la bellezza della legalità (alla quale egli non è abituato). La Lega Nord grida contro lo stato e contro i nostri simboli per cui tanti ragazzi sono morti? Basta falsa superiorità dimostri loro che non sono nulla se non grigio (pardon verde) liquame scaturito dalla corruzione e dall’ignoranza e che l’art. 21 non copre le loro offese. Craxi andrebbe riabilitato? E’ stata una mossa infelice leggere una lettera a vedova e figli secondo la mia modesta opinione: un criminale anche se riformista sempre criminale rimane e la morte non dovrebbe far retrocedere dalla verità. Come si sarà accorto mi sono leggermente lasciato andare nella mia demagogica lettera faziosa ma sono sicuro che non cambierà niente. Il perché? Siamo rassegnati Presidente: dalla politica, dalla burocrazia, dai manager e perfino da lei che dinnanzi a richieste di non firmare leggi esplicitamente illegittime costituzionalmente ci risponde contrariato, come un padre che rimprovera il figlio perché ancora non ha capito come funziona il mondo retto dai furbi e dai ricchi.

martedì 22 giugno 2010

L’inquisizione di Saramago


di Matteo Napolitano
«E’ stato un uomo e un intellettuale di nessuna ammissione metafisica, fino all'ultimo inchiodato in una sua pervicace fiducia nel materialismo storico, alias marxismo». E’ in questo modo barbaro che nelle pagine dell’Osservatore Romano del venti giugno viene sminuita e minimizzata l’opera del grande poeta, scrittore e giornalista portoghese Josè Saramago, il premio nobel che, nel ’91, fece scalpore per la sua opera “Il vangelo secondo Gesù Cristo”.
Sembra incredibile che già a pochi giorni dalla sua morte sia stato messo al rogo dai fedelissimi del Papa, sembra impossibile che la sua opera di insigne spessore intellettuale sia già stata bollata, eppure è cosi, accusato di essere un «ideologo anti-religioso», «di aver difeso i gulag e condannato le crociate», «di aver sfidato le secolari memorie del cristianesimo con irriverenza e sterilità logica prima che teologica» e peggio ancora «con faziosità dialettica di tale evidenza da vietargli ogni scopo». Non credo personalmente che Saramago meriti una tale azione di vituperazione, nel suo «vangelo apocrifo” rivendicava l’umanità di Gesù, il fatto che sia nato e cresciuto tra gli uomini da uomo anch’esso, attingeva a piene mani dal Nuovo e dall’Antico testamento con occhio critico e spirito dissacratorio, a tratti, ma estremamente lungimirante, affidava al figlio di Dio prove impensabili quale quella di convivere con il diavolo e di suo “padre” lascia alla nostra memoria immagini di dispotismo e sete di gloria, specchio della moderna casta ecclesiastica.
“L’inquisizione di Saramago” rappresenta l’ennesimo processo all’intellettualità atea e ci dà la conferma che il ruolo censuratore e monitorio della Chiesa è ancora troppo forte, i moderni roghi infatti si compiono sui giornali, con le parole, uccidendo la memoria di chi, forse più di quanto lo facciano loro, si è occupato di tematiche religiose, teologiche oppure solo indirettamente o più strettamente correlate ad esse. Josè Saramago è stato l’unico premio nobel della storia per il Portogallo, è stato un grande scrittore e un grande intellettuale ed è per questo che va ricordato e soprattutto protetto da attacchi faziosi, molto poco obiettivi e mal argomentati.
Proprio lui nel suo celeberrimo vangelo aveva negato a Lazzaro di resuscitare per non incorrere in una morte ulteriore, spero vivamente che questo monito venga accolto soprattutto da chi crede di poter giudicare e fare pubblicità a sé stesso infangando l’onestà intellettuale altrui.

Contro la pena di morte


di Claudia Giannini
Era il 1763 quando Cesare Beccaria dava alle stampe il suo “Dei delitti e delle pene”. Oggi, nel 2010, in un occidente che si dice civilizzato e evoluto, in un Paese che si vanta di essere il primo per libertà e diritti umani, Ronnie Lee Gardner viene ucciso a fucilate.
Quattro colpi sparati da cecchini “servitori dello Stato”. Un cappuccio in testa e un bersaglio sul cuore, così per essere sicuri di non sbagliare.
Aveva ucciso due persone, passato 25 anni in un carcere di sicurezza e chiesto la clemenza al governatore dell’Utah. Rifiutata. Giovedi scorso è stato condannato a morte.
Quando Beccaria, in pieno Illuminismo scrisse il suo saggio, non aveva intenti pietistici, né era mosso da particolare carità cristiana. Era un testo estremamente razionale, ed è forse solo a questa razionalità che ci si può appellare oggi. Da illuminista qual era, faceva un discorso molto semplice: confutava la pena di morte perché, in primo luogo, se il reato è un danno alla società, a questa stessa società è più utile un uomo che con il suo lavoro e la sua riabilitazione contribuisca a ripagare, seppur in maniera alternativa, il danno causato, piuttosto che un uomo morto. In secondo luogo, se la pena deve essere un esempio, lo è di più un uomo in carcere a vita, piuttosto che una pena che impressioni l’opinione pubblica solo momentaneamente e in più faccia passare lo Stato per carnefice.
Basterebbero queste tesi a far comprendere l’inutilità della pena di morte, ma Beccaria vi aggiungeva la semplicissima eventualità che il giudicato colpevole, in realtà non lo fosse.
Oggi che Beccaria è solo un testo da liceo, mi chiedo, sdegnata, come sia possibile che la comunità internazionale non si ribelli a questa barbarie compiuta negli Stati Uniti. Gli stessi Stati Uniti che sono stati applauditi per l’elezione di un presidente nero, che hanno detto no al razzismo, ma che restano indifferenti di fronte a un uomo (che sia assassino, stupratore, ladro, maniaco, serial killer) che viene preso a fucilate da un plotone di esecuzione. E poi ci parlano di diritti civili e di libertà. Per non parlare dell’Europa che non muove un dito, impietrita di fronte alla ‘potenza’ del colosso d’oltre Oceano.
Tutti a guardare nel proprio orticello, anche perché non mi risulta che in Utah ci sia il petrolio.
Che ci pensi “Nessuno tocchi Caino” a queste sciocchezze di pene capitali.

martedì 15 giugno 2010

La coscienza sporca della Prima Repubblica


di Stefano Pietrosanti
Quando il cinquantenne medio parla di politica, soprattutto se nella sua maturità ha goduto di qualche agio, spesso tira fuori accenni che si potrebbero riassumere come “eh, però certo che gli uomini della Prima Repubblica sì che erano uomini di stato…”.
Mi viene sempre un po’ da sorridere. Soprattutto quando apro il giornale e leggo che il governatore del Veneto, ex-ministro della Repubblica, ha deciso di far suonare a un’inaugurazione prima il Va Pensiero che l’Inno d’Italia. Non amo la Lega e non ne faccio mistero, ma sono anche convinto che le persone, anche quelle che ci lasciano più perplessi, sono comunque definite da un fondo di razionalità, per cui, anche nella più totale non condivisione, bisogna almeno fare lo sforzo di comprenderle.
Perché una parte rilevante dei votanti Italiani è arrivata a provare un tale disamore per la nostra democrazia? Non so se sia una mia perversione mentale pensare che forse una qualche colpa sia anche da ascriversi a quegli, a quanto pare ormai così rimpianti, “uomini di stato”.
Il motivo fondamentale per cui rifiuto quasi senza colpo ferire qualsiasi teoria complottistica sulla fine di un potere è che credo ci voglia un grande rispetto per ciò che è stato a livello storico. Un potere crollato normalmente ha ampiamente meritato il crollo, ne’ un potere ha mai continuato a esistere senza una qualche forma di consenso. Ora, la Prima Repubblica, per quanto abbia adempiuto all’eccezionale missione di ricostituire la democrazia in questo paese, ha sacrificato a infinite ragioni, contingenti o meno, una cosa fondamentale per la continuazione dello Stato: il già fragile affidamento degli Italiani nelle istituzioni.
Diceva un commentatore francese del XVIII secolo che, se normalmente gli Stati avevano a disposizione un esercito, in Prussia un esercito aveva a disposizione uno Stato. In Italia, cambiando i termini, si sarebbe potuto sostituire con “la burocrazia e i legulei.” Non voglio essere frainteso, non mi lancio in una serie di recriminazioni alla Brunetta, ma e’ vero che in molti campi questo Stato si distingue per la farraginosità e per una radicata abitudine clientelare. Questa e’ un’eredita’ della prima Repubblica, che certo non è stata intaccata con decisione da quelli che spesso sono i componenti delle seconde fila del potere d’un tempo.
L’ultima trovata di Zaia è solo questo: tanta irresponsabilità mista al profondo disamore che si è radicato nel tempo negli italiani verso il loro stesso paese, un disamore frutto di una certa innata tendenza al disperarsi facile, ma che non ci può non far ricordare come ci servirebbe una profonda e seria critica di ciò che siamo stati, per immaginare ciò che vorremmo essere.

di Andrea Passamonti
Siamo all’inizio dei campionati del mondo e più di Maradona in abito da sposo con rosario al seguito, più dell’antipatia di Lippi e più del rumore delle insopportabili vuvuzelas, a stupire il mondo è un popolo che all’inizio del secolo scorso aveva destato sorpresa, ma in negativo.
Se ci guardiamo indietro non è passato poi molto tempo dalla proclamazione delle leggi razziali da parte della Germania nazista, emanate a protezione del sangue della razza tedesca. Oggi però la situazione sembra completamente cambiata e la nazionale tedesca ne è l’esempio lampante: dei ventitre tedeschi convocati per i mondiali solo in dodici sono figli del terzo reich, gli altri hanno origini a dir poco diverse, ma non per questo sono meno tedeschi. La nuova nazionale ha origini cosmopolite: Turchia e Polonia, ma anche Nigeria, Bosnia e Tunisia, fanno della Germania un paese che nonostante le difficoltà che ha dovuto affrontare (guerra, ricostruzione, muro) ce l’ha fatta. Un paese che ha abbandonato il suo Sonderweg, quella sua tanto ricercata diversità dall’occidente, per integrarsi con il mondo mantenendo pur sempre un forte carattere nazionale. Lo dimostrano proprio i giocatori della nazionale, che non parlano solo le loro lingue d’origine, ma si esprimono con accenti e dialetti dei vari Lander. Ma la capacità di questa nazionale è anche quella di dare forte spazio ai giovani, ponendosi tra quella con la più bassa età media. Se poi si accetta l’idea che lo sport rappresenti o comunque anticipi la realtà sociale di un paese, si capisce bene cosa simboleggi la rosa tedesca. Che poi i risultati diano i frutti sperati è solo un aspetto secondario, la Germania è riuscita nella sua rinascita.
Se poi si guarda cosa succede al di qua delle Alpi verrebbe anche da assecondarli nel loro Deutschland über alles. Ma solo in questo. Per il resto, forza azzurri.

martedì 8 giugno 2010

Ora di Bibbia nelle scuole pubbliche


di Martina Nasato
Il 29 Marzo 2010 è stato firmato un protocollo d'intesa fra il Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca e l'associazione Biblia «allo scopo di programmare una maggiore presenza della Bibbia nella scuola, e in data 13 Maggio 2010 si è svolta la prima riunione ufficiale del comitato paritetico MIUR-Biblia, con la quale questo ambizioso progetto è iniziato». Questo è quanto si legge testualmente sul sito www.biblia.org. Strano però che nessun giornale abbia finora dato spazio a questa novità, che suona un po' come una presa in giro verso chi decide di non avvalersi dell'insegnamento della religione cattolica. Facciamo un passo indietro: riconosciuta ufficialmente come organizzazione non lucrativa di utilità sociale, Biblia si presenta come un'associazione laica di cultura biblica. Insomma, un ossimoro già in partenza. Ma andando avanti troviamo altri paradossi, alcuni piuttosto fastidiosi: la scuola pubblica è stata letteralmente ridotta all'osso dalla pseudo riforma Gelmini, dalla pseudo ottimizzazione di Brunetta e dalla finanziaria di Tremonti (I fondi pubblici destinati alle scuole private sono rimasti quasi intatti): meno ore d'insegnamento, concorsi bloccati a tempo indeterminato, bloccati anche gli scatti stipendiali per gli insegnati, mancanza di risorse economiche per eventuali progetti. Ora però salta fuori questa “collaborazione”, i cui termini non sono riportati da nessuna parte (in pratica, non sappiamo se o quanto viene a costare allo Stato). La cosa curiosa è che lo studio dei testi sacri sarebbe già previsto nelle scuole di ogni ordine e grado, attraverso l'ora facoltativa di insegnamento della religione cattolica: a che scopo avviare un simile progetto? E qui sta il colpo da maestro: «la conoscenza della Bibbia in un'ottica laica» (altro bel paradosso) sarà promossa non durante l'ora di religione, bensì durante l'ora di Italiano. Insomma, la scuola che doveva potenziare la conoscenza dell'Inglese e dell'uso di Internet, non solo non ha mantenuto l'impegno preso con le famiglie, ma addirittura inizia a sprecare le poche ore preziose rimaste. Cosa c'entra un insegnante di Italiano con la Bibbia? La risposta, a mio avviso, è semplice: l'Italiano non è una materia facoltativa. Gli alunni che, sempre più spesso, decidono di non avvalersi dell'insegnamento della religione cattolica, non possono sfuggire allo studio della loro lingua. Insomma, la Chiesa messa alla porta, rientra dalla finestra.

La Signorina Immaginazione e la Signora Ragione


di Claudia Giannini
All’Immaginazione non veniva mai dato il giusto peso. La Signora Ragione, sempre sicura e riverita, attraversava i secoli ponendosi come l’unico ideale possibile. E ogni qual volta l’Immaginazione si insinuava nella testa di qualcuno, era solo in quella dei bambini che si trovava a suo agio. Gli adulti, beh, la rifuggivano, perché avevano paura di non essere presi sul serio dagli altri, se beccati a fantasticare.La Ragione invece, specchio obiettivo della realtà, era ricercata da tutti e non appena qualcuno se ne mostrava privo, incontrava i biasimi e le ire degli altri. Immaginazione e Ragione, tra loro, non andavano così d’accordo, diciamolo pure. La prima, ingenua, istintiva, non si curava tanto del mondo, pronta a fornirne uno migliore a chiunque l’accogliesse in sé.La seconda, orgogliosa e sicura di sé, non accettava di dividere i suoi meriti con la nemica, nonostante in cuor suo, sapesse quanto grande fosse l’apporto dell’Immaginazione alla sua esistenza.Un giorno, la Signorina Immaginazione, stanca di essere scacciata e rifiutata da tutte le menti, fuorchè quelle dei bimbi, decise di rimanere solo con loro. I bambini di tutti i Paesi cominciarono a inventare storielle, fiabe, racconti. E più la loro Immaginazione diveniva grande, più cominciavano a risolvere problemi difficili.D’altro canto, la Signora Ragione, senza la spinta dell’Immaginazione, non riusciva più a porsi come soluzione nelle menti delle persone. Gli uomini e le donne vagavano per le strade cercando di ragionare, ma non riuscivano a capire più nulla, persi nelle loro analisi razionali senza capo né coda.La Ragione allora, capendo la gravità della situazione, corse a chiamare i bambini, che con la loro Immaginazione inventarono una fiaba per spiegare ai grandi l’importanza di questa dote.Fu così che nacque questa storia.Da quel momento Ragione e Immaginazione non si divisero mai più, avendo capito che solo unite sono vincenti.Infatti è solo grazie all’Immaginazione che nascono le grandi idee.Ed è solo con la Ragione che possono essere portate avanti.

martedì 1 giugno 2010

CITTA’ SENZA MURA


di Riccardo Di Santo
Sono stato incastrato. Eppure dovevo sapere che la richiesta di dare una mano a mio padre a riordinare la libreria di casa (area misteriosa che fin dai più precoci ricordi d’infanzia non aveva mai subito modifiche nella sua disposizione) sarebbe equivalso a farlo da solo, eppure “c’est la vie”. Il lavoro non è dei più esaltanti cosi, un po’ per noia un po’ per curiosità, mi ritrovo a sfogliare libri, sorridere di fronte a vecchie foto di famiglia, ammirare medaglie sportive e rigirare fra le mani pipe usate. Arrivato quasi alla fine mi ritrovo uno strano libro tra le mani dal titolo “Città senza mura, un capoluogo verso l'Europa”; incuriosito dal titolo e dalle numerose immagini al suo interno che mi ricordavano qualcosa di familiare decido di metterlo da parte e leggerlo in seguito, cosa che è successa un paio di giorni dopo. Mi si è aperto un mondo, in quel libro vi erano tutti i progetti destinati alla città di Latina nel 1985 dall’amministrazione del Sindaco Corona (sindaco per ben 3 mandati dal 72 all’85). Ho visto progetti mirabolanti, futuristici: parchi, biblioteche, musei, canali navigabili, piste ciclabili, opere d’arte e piazze. Percepisco dalle parole che leggo, un’idea di città giovane, punto di riferimento e motivo d’orgoglio. Una pista ciclabile che non ha nulla a che fare con quella mediocre opera attaccata alla strada piena di macchine e di smog odierna, ma che può competere con tutti i migliori progetti del Nord Europa, immersa nel verde e che rende un giro in bicicletta sia un momento di relax che di sport . La biblioteca? Altro che quella attuale, ma un progetto monumentale firmato dal genio di James Stirling (architetto di fama mondiale) immerso nel verde proprio di fronte all’edificio dell’INPS di via C. Battisti, che comprendeva Bar, negozi, biblioteca per i bambini, gli universitari, sale conferenza e aree esposizioni. E poi la riqualificazione dei Borghi, i progetti per una Piazza “all’Italiana” con spazio ampio circondato da porticati sotto i quali negozi, locali e bar, una sorta di Piazza di libertà ma 5 volte più grande. Chiudo il libro con disappunto, dall’1985 al 2010 solo 1/5 di ciò che ho letto è stato realizzato e per giunta male; cosa è mancato? Soldi, volontà politica, volontà sociale o è stato solo senso di indifferenza? Esco per un giro in bicicletta e tra l’evitare una buca, di farmi investire presso la rotonda di via del Lido (dato che la pista s’interrompe e si deve attraversare la strada) e di farmi prendere a schiaffi dalle foglie delle piante pericolosamente basse, arrivo finalmente in centro. Vedo con un misto di comicità e pietà gli automobilisti che parcheggiano ovunque pur di non pagare il pedaggio assassino che quelli di Urbania (e del comune) ci hanno regalato. Passo in biblioteca a salutare un amico che prepara la maturità e lo trovo rilegato in un angoletto, dato che i posti erano tutti esauriti e l’autobus che aveva preso passava solo un’ora dopo l’apertura della sala. Mi siedo al caffè degli Artisti a prendere un caffè e soffocato da una Golf che evidentemente non è nemmeno Euro 2, non posso fare altro che chiedermi: E se fosse stato diverso?

L'Italia dei mille e le mille "Italie"

di Matteo Napolitano
La città di Palermo nei giorni ventinove e trenta maggio sembrava tornata in quei concitati giorni di fine ottocento in cui si andavano a decidere le sorti del nostro paese, in cui si abbozzava il primo modello dello "stivale" che, con i ricorsi storici, sembra decisamente passato di moda. Mal rifinito e poco in linea con i "polpacci" delle nostre eterne contraddizioni, questo stivaletto "old style" o "vintage", come direbbero i migliori stilisti, continua a far parlare di sè e degli uomini che lo formarono, quelli che tutti chiamano eroi, quelli che io chiamo vittime sacrificali. L'iniziativa di Palermo organizzata dallo storico dell'arte Philippe D'Averio, va guardata, dal mio singolare punto di vista, con una buona dose di scettismo, senza nulla togliere alle buone intenzioni di partecipanti, guerriglieri e promotori.Lo scetticismo nasce dal fatto che in Sicilia dall'ormai lontano 1943 esiste un movimento d'indipendenza, il MIS, che ha e deve avere i suoi buoni motivi per portare avanti le sue posizioni.Dare l'indipendenza alla Sicilia significherebbe spezzare anche i nostri equilibri, in particolar modo quegli equilibri politici legati alle potenti cosche di cosa nostra che controllano i nostri bei palazzi con logiche sistematiche molto complesse e coadiuvati da coloro che favoriscono l'innescarsi di questi ingranaggi malavitosi ossia quelli che, un pò per sport un pò per interesse, frequentano questi palazzi."Isolare" la Sicilia significherebbe arginare, o meglio limitare anche se in piccola parte, la mafia, privarla di buona parte dei privilegi del nostro sudore costituzionale, renderla in qualche modo schiava dei luoghi in cui si è originata fino al punto di farla collidere con le sue stesse armi. Dicendo questo e ponendomi su queste posizioni non posso in nessun modo sorvolare l'ottima parte di siciliani onesti che purtroppo andrebbero a perdere, in un sistema così colluso, buona parte delle armi politico-istituzionali poste al loro servizio.In tutto questo a Roma il trenta maggio si è conclusa la mostra dedicata ad un grande poeta e cantautore del nostro tempo, Fabrizio De Andrè, che vicino all'indipendentismo sardo da anarchico pronunciò queste parole "IN CERTI PAESI COME FINISCE LA CACCIA AL CINGHIALE SI APRE LA CACCIA ALL'AMMINISTRATORE PUBBLICO", per dire che bisogna imparare a conoscere i nostri amministratori e i nostri "cinghiali", gonfi di buone parole ma vuoti del tutto di idee.