martedì 27 luglio 2010

Demassificazione delle masse


di Stefano Pietrosanti
Tra le tante abitudini e tic per cui il pensiero Occidentale si è caratterizzato dalla modernità ad oggi c’è il pensiero analitico, ossia quella forma di pensiero che - davanti ad un evento del reale - si muove con i ferri della ragione, tagliando, aprendo, smontando, riducendo all’osso e cercando gli elementi primi. Nell’analisi dei fenomeni sociali, poco meno di cent’anni fa l’elemento che sembrava assolutamente fondamentale era la Massa, e questa venne analizzata nelle sue componenti, nella sua totalità e nel suo agire. Grandi menti che si applicarono alla questione stigmatizzarono due fondamentali elementi del concetto di Massa: Massa (nel senso di uomo-Massa) è tutto ciò che si accetta per come è, non riconosce possibilità di miglioramento e reclama il suo diritto ad essere ciò che è senza sottoporsi a sforzi razionali; la Massa (in quanto collettivo) è caratterizzata dall’irrefrenabile volontà di crescita e di azione, che la porta a un processo interno di inflazione-implosione e ad avere forti tendenze distruttive, non per caso viene spesso simbolizzata mediante il fuoco, l’incendio, la fiamma. La categoria mentale espressa in questi termini, è rimasta a mio parere perfettamente attuale fino alla fine degli anni settanta, per periodi successivi, però, possono sorgere dubbi interessanti. Ultimamente mi trovo, riflettendo nel mio piccolo, ad osservare due cose, primo: sembra venuta meno la caratteristica reattiva della Massa. L’uomo-Massa viene sempre caratterizzato dall’affermare il suo diritto ad essere ciò che è senza modificare le sue deficienze, ma certo è evidente quanto non abbia più la pretesa di intervenire nella realtà. Il nostro tempo si caratterizza al massimo per un’elevata violenza verbale, ma sicuramente è povero di scoppi esplosivi di energia, anzi, pare venato da un certo senso di impotenza diffusa, che colpisce indistintamente l’uomo della strada come il capo degli uomini della strada, Presidente del Consiglio dei Ministri, quando si trova a rapportarsi con la realtà. Secondo: i mezzi di informazione interattiva, come internet, sublimano il desiderio di crescita continua della Massa con surrogati digitali e danno oggettivamente un maggior peso all’individualità, rendendo sempre più facile la libera ricerca di informazioni e la libera produzione di opinioni e quindi frammentando la Massa. Mi viene da chiedermi: che un ulteriore passo nel superamento di ciò che chiamiamo modernità sia proprio la demassificazione delle masse?

Responsabili falsi eroi


di Andrea Passamonti
Una volta assumersi una responsabilità significava mettere in gioco la propria vita. Ne sa qualcosa Giordano Bruno, che al rogo fu messo perché i propri studi contrastavano con l'autorità dei Santi Padri, nonostante questi fossero «meno de' filosofi prattichi e meno attenti alle cose della natura».
Oggi, purtroppo o per fortuna, l'assunzione di responsabilità non comporta grandi impegni (soprattutto fisici) e non è diventata altro che uno strumento per discolparsi da qualunque errore si abbia commesso, senza avere la voglia di ascoltare critiche o analizzare il perché lo si è fatto. L'ipotetico imputato evita il processo dichiarandosi colpevole (di una colpa di cui non è neanche troppo convinto) e questo gli basta per sentirsi in pace con la propria coscienza, apparendo agli altri come povera vittima sacrificale di se stesso.
Capita spesso quindi di confondersi e confondere: si fa credere di aver preso una decisione rischiosa e importante quando in realtà si è deciso di affidarsi a quella più semplice e meno onerosa. È un atteggiamento molto frequente, forse proprio per la possibilità, da parte di chi lo assume, di sentirsi un eroe anche quando tutto farebbe pensare il contrario.
Ultimo tra i falsi eroi è il nostro ex ct Marcello Lippi che la responsabilità del disastro mondiale se l'è presa subito, discolpando giocatori e staff, come se ci potesse essere un altro colpevole della disfatta. Lippi però è in buona compagnia.
Che dire di Abramo, il primo patriarca dell'ebraismo? Grande responsabilità quella di sacrificare il proprio unico figlio (salvato per il rotto della cuffia) sotto ordine del proprio unico Dio. Forse un po' più coraggio ci sarebbe voluto per dire a quell'unico Dio di divertirsi a fare quei giochetti con qualcun altro.
A volte è da persona più saggia confessare che il coraggio di prendere una decisione più difficile non lo si è avuto. È il caso di Galileo, che abiurando ha evitato di fare la stessa fine di Bruno a Campo de' fiori, di Celestino V, il Pontefice del gran rifiuto, Ponzio Pilato... Questi uomini saranno forse sommersi dai rimpianti perché vinti dalla propria mancanza di coraggio, ma non si sono illusi di appartenere alla categoria dei coraggiosi.
Non c'è coraggio in una persona che prende decisioni semplici, senza rischi, e che non comportano danni a se stessa. C'è paura. E a nulla serve prendersi la responsabilità di una decisione del genere credendo di essere un eroe, perché è del tutto logico che questa non può essere di nessun altro se non di chi quella decisione l'ha presa.

martedì 20 luglio 2010

Herbert D’Ambrosio: L’arte di essere


di Matteo Napolitano
L’arte è la materia delle emozioni ed è estremamente stimolante cercare di comprenderla, nel nostro piccolo, dalle parole e dall’esperienza di chi ci dà modo di fruirne e di “usufruirne” per la vita di tutti i giorni. Herbert D’Ambrosio è nato a Roma il 28 giugno del 1955 e già da giovanissimo manifesta una certa attitudine all’arte, nel suo caso la pittura, che approfondirà con gli studi al liceo artistico e soprattutto nella bottega dello zio Andrometti Remo, maestro nella lavorazione del bronzo. Il suo percorso artistico è in continuo crescendo e le sue opere vengono attualmente apprezzate oltre che in tutta Italia anche in Portogallo, Svezia, Germania, Grecia, Olanda, Giappone e negli Stati Uniti.
Quando e come si è avvicinato all’arte e in particolar modo alla pittura? Ha o ha avuto artisti di riferimento?
Non c’è un vero e proprio inizio, c’è stata solo continuità. Abitavo a Trastevere a Roma e sulla strada parallela a quella su cui si trovava la fonderia di mio zio (Remo Andrometti ndr) c’era via San Francesco di Sales dove era situata la succursale del liceo artistico di via Ripetta, ed era questo l’unico modo per farmi studiare per cui, facevo lezioni al liceo artistico ed andavo a lavorare il bronzo dall’altra parte. Non ho mai avuto influenze vere e proprie, l’unica mia influenza è stata la materia poiché lavorando la cera persa, lavorando quindi il bronzo, anche il lavoro con il pennello è divenuto continua ricerca, sento sempre il bisogno di “toccare” e di sentire ciò che dipingo. Certo è anche vero che avendo avuto contatti con artisti provenienti da tutto il mondo, in maniera genuina, ho imparato moltissime tecniche. Insomma ho imparato perché me lo sono trovato dentro questo spirito, non c’è un vero inizio ma un percorso di continuità.
La fantasia fanciullesca delle sue trame pittoriche ed il ricorso a figure armoniche deriva quindi direttamente dal suo modo di intendere la pittura?
Allora, da quando è nato mio figlio il mio stile è molto cambiato, queste trame sono il frutto di un’evoluzione psicologica, questo, hanno detto le persone che mi hanno conosciuto nel corso degli anni, è il mio vero modo di essere e di dipingere. Prima ero influenzato da molte variabili esterne, i galleristi che compravano, gli altri artisti che mi erano vicini, le altre opere e quindi ero condizionato, ricominciare è stato come rimettere in moto la macchina dopo l’avaria, ho lasciato un po’ tutto il passato alle spalle e mi è servito come esperienza per capire che ciò che faccio ora è quello che in realtà ho dentro da sempre.
Oggi è ancora possibile tratteggiare la figura del pittore?
Per me la pittura è ciò che realmente sei. Ci sono dei pittori che vanno in giro alla ricerca di cataloghi, biglietti da visita, depliant, per me il vero pittore è colui che fa questo mestiere non per farsi dire bravo o per arrivare, bensì per il solo gusto di dipingere, se poi arriva bene per gli altri non per lui, bene per chi lavora con i suoi quadri, al vero pittore personalmente non “jè frega proprio niente”!
Io sono così come vedi nei miei quadri.
Secondo lei è possibile avvicinare all’arte, a parte i bambini mossi da curiosità più genuina, giovani di età un po’ più avanzata e adulti?
Io in questo spazio (a Latinafiori ndr) faccio dipingere tutti, vengono anche persone adulte. L’altro giorno ho dato lezione qui ed è diventato un “macello” perché la gente è condizionata dal sentirsi dire che sono bravi e al se piace, deve per forza avere in ciò che fa dei riferimenti cioè, l’albero dev’essere con le foglie verdi, deve avere il tronco marrone, questo per dire che la gente non è pulita dentro, io invece gli do quell’input per rigenerarsi, arrivano ad un punto in cui non vedono più chi gli sta intorno e partono per la tangente. Ti dicevo, l’altro giorno una signora adulta ha sporcato tutte le scale e vai a dirle un attimo di pazienza, si era liberata di tutto è questo è qualcosa di meraviglioso. Noi viviamo una vita che non è la nostra, portiamo quel tipo di maglietta o quel tipo di scarpe perché ci viene imposto, noi non scegliamo mai nulla, prima ho visto una ragazza contenta per aver comprato delle scarpe di plastica a 180 euro ma non le aveva comprate perché le piacessero bensì perché le aveva uguali la sua amica. Allora io dico liberiamoci da questi schemi mentali e viviamo per ciò che amiamo veramente, aldilà del prezzo o della qualità esteriore. Viviamo in un periodo di dittatura subdola, senza figure, e dobbiamo imparare a coglierne gli spunti positivi, chi non è libero dentro però non vi riesce e non è più sé stesso.
In conclusione, ha qualche progetto per il futuro?
Ho una bella mostra personale a ottobre a Cagliari insieme ad una scrittrice che tratta le mie stesse tematiche. Faccio queste esposizioni combinate di modo che si possa creare un percorso di ricerca anche personale per il visitatore che in nessun modo deve essere condizionato, nel momento in cui tu parli lo obblighi ad ascoltare e inevitabilmente gli dai la tua chiave di lettura. Se qualcuno è interessato viene direttamente e chiede informazioni, succede anche per gli stessi critici, perché sennò quando vede qualcosa non la vede più con i suoi occhi ma la vede con gli occhi dell’altro che gliel’ha imbastita e quindi gli hai distrutto la fantasia, gli hai distrutto quello che aveva dentro, il suo immaginario insomma.

Per ulteriori info invito i lettori a visitare il sito: http://www.herbertdambrosio.it/
Le lezioni, o meglio, le esperienze di pittura con Herbert D’Ambrosio riprenderanno a settembre sempre a Latinafiori, se siete interessati accorrete numerosi.

martedì 13 luglio 2010

Cassazione: Picchiare la moglie che ha un carattere forte non è reato


di Martina Nasato
Picchiare la moglie non è reato se questa ha un carattere forte e non si lascia intimorire dalle percosse. Questo è, in sintesi, quanto stabilito dalla Corte di Cassazione nei confronti del signor Sandro F., un quarantacinquenne di Livigno. L'uomo era stato condannato cinque anni fa in primo grado e nel 2007 la sentenza era stata confermata dalla Corte d'Appello di Sondrio: 8 mesi con la condizionale e l'obbligo di risarcimento dei danni e refusione delle spese legali alla moglie, la signora Roberta B.. La Cassazione ha però ribaltato la decisione assolvendo del tutto il signor Sandro, «perché il fatto non sussiste». Nonostante questi avesse picchiato e minacciato la moglie in molteplici occasioni nell'arco tre anni. Si legge fra le motivazione della Cassazione che: «la condizione psicologica di Roberta B., per nulla intimorita dal comportamento del marito, era solo quella di una persona scossa, esasperata, molto carica emotivamente.» Tutto ciò, nonostante risulti chiaramente dalla condanna della Corte di Appello che «la responsabilità dell'imputato era provata sulla base di sue stesse ammissioni, anche se parziali, e sulla testimonianza di medici, conoscenti e certificati medici, da cui si ricava una condotta abituale di sopraffazioni, violenze e offese umilianti, lesive della integrità fisica e morale della moglie sottoposta a continue ingiurie, minacce e percosse». Per la Cassazione, invece, i giudici d'Appello avevano preso un abbaglio, scambiando per sopraffazione un banale clima di tensione fra coniugi. D'altra parte, è difficile credere che una persona dotata di intelligenza media non sia in grado di distinguere un clima di violenza da semplici dissidi fra coniugi: dove c'è minaccia c'è violenza psicologica, dove c'è percossa c'è violenza fisica. Si è ben oltre la tensione. Il fatto che l'altra parte reagisca con fermezza non cambia le cose. Tanto più se si tratta di marito e moglie, persone che vivono sotto lo stesso tetto e per le quali le ragioni di scontro si moltiplicano. Le conclusioni che si possono trarre sono poche e retrograde: anzitutto, si giustificano di fatto le percosse e le minacce fra coniugi, facendo rientrare all'interno della nozione di “violenza domestica” solo i casi in cui la vittima sia sopraffatta anche psicologicamente; in secondo luogo si alimenta il cliché sessista che vede la donna naturalmente subordinata alla superiorità del marito. Ci si potrebbe chiedere come sarebbe andata se la signora Roberta fosse stata più docile e mansueta: il signor Sandro avrebbe reagito più pacatamente? O ne avrebbe approfittato per infierire? La politica del diritto italiano si riconferma ancora una volta culturalmente maschilista, facendo superare la nozione di “persona” da fuorvianti e diseducative distinzioni fra uomo e donna.

Questa tassa non s’ha da pagare


di Riccardo Di Santo
L’argomento non è nuovo né dei più insoliti. Noi stessi de L’Agronauta abbiamo passato i nostri sabati a raccogliere le firme da voi, disturbando la vostra passeggiata, con discorsi la cui natura era fondamentalmente la stessa di questo articolo: l’erroneità e la totale mancanza di giustificazione della tassazione dei parcheggi. Quelle odiose macchinette sparse per tutto il nostro centro che al minimo prezzo di 35 centesimi (70 per un ora) ci “autorizzano” a porre in sosta il nostro veicolo su una strada costruita e mantenuta appositamente con i nostri soldi. Vedete, in democrazia uno dei principi fondamentali è la trasparenza, ma lo è solo a parole, altrimenti sapremmo immediatamente il motivo dell’esistenza dei Parcometri. Quale è infatti il diritto dell’ente locale di porre in essere una tassa (mi perdonino i giuristi) per permettere a noi cittadini di parcheggiare il nostro mezzo? Ragioniamo: noi paghiamo una tassa per il possesso e il mantenimento del nostro veicolo; noi paghiamo per la costruzione e la manutenzione (pessima aggiungerei) del manto stradale comunale e statale; infine, nocciolo della questione, paghiamo anche affinché due oggetti pagati e mantenuti da noi possano stare insieme ovvero il parcheggio. Secondo la mia opinione la risposta è insita nella domanda. Nessuna giustificazione è possibile per questa situazione. Cioè è possibile fornire una giustificazione solo se si comprende la motivazione, ovvero sopperire alla mancanza ciclica di fondi da parte degli enti locali spendaccioni e mal governati mediante l’imposizione ulteriore di pagamenti che raggiungono indistintamente sia chi lavora (vedi il centro) sia chi vuole solo godersi l’estate (vedi il lungomare diviso fra strisce blu e multe per divieto di sosta, del genere o paghi o paghi). E che dire della nostra “straordinaria” forza di polizia municipale? Cosi celere nel distribuire sanzioni, punire chi ha come ultima colpa il voler fare l’amore al mare, come cosi assente quando servirebbe: quando c’è da fare un controllo oppure quando vi è un controversia tra gli automobilisti, senza feriti gravi. Vedete questo non è un articolo di riflessione come i miei soliti, è un articolo di puro attacco. L’esistenza dei pedaggi esiste solo perché servono i nostri soldi per rimediare allo spreco dei politici e dei funzionari a cui siamo ormai abituati. Magari fossero usati per mettere in stato di sicurezza le nostre strade, teatro troppo spesso di incidenti fra i giovanissimi, la cui colpa è facile dare a noi: noi drogati, noi ubriachi, noi che corriamo, mai che si dica colpa della strada mal illuminata, piena di buche, stretta. Già perché tanto i soldi che noi versiamo finiscono in mani private, Urbania in primis, o in mani bucate.

martedì 6 luglio 2010

Tosarello: trionfo del b…usiness


di Matteo Napolitano
Sono ormai passati ventidue anni dalla prima edizione del trofeo “Peppino Tosarello città di Latina” una vera e propria festa del basket pontino, luogo di riunione sportiva per “vecchie” glorie e giovani talenti della pallacanestro, sport “croce e delizia” della realtà del capoluogo. Parliamo di passato purtroppo.
Nel corso degli anni l’organizzazione ha preso sempre più coscienza del fatto che la molta visibilità del torneo, a livello non solo locale, potesse diventare merce di scambio per rilevare azioni di mercato e per avviare trattative, snaturando così la natura sportivo-agonistica dell’evento.
Ad alternarsi nel campo possiamo ammirare roosters stellari, giocatori rilevati da tutta Italia, squadre potenzialmente competitive in campionati di alto rango, schiacciate e disimpegni vicini al basket professionistico e lontani anni luce dal basket amatoriale e dal suo spirito, divertente e a suo modo interessante. Mi dispiace molto assistere a una partita e vedere “campionissimi” che camminano, giocatori titanici che si scontrano, in modo impari, con altri che al confronto sono a malapena paragonabili a nani da giardino, mi dispiace vedere la persone che escono annoiate da uno spettacolo patetico e i bambini che si innamorano di una competizione oltremodo falsa nell’attesa del contropiede con slam dunk del loro o dei loro beniamini. Perché non dare più spazio ai tanti professionisti e semi professionisti che gravitano nei nostri campionati locali? Perché non valorizzare lo spirito agonistico dei vari matches?
Chi scrive è un amante del basket che non vede orizzonti positivi per questo sport nella nostra città, si preferiscono talenti esterni provenienti da squadre che nulla hanno a che vedere con le nostre aspettative, si preferiscono giocatori formati a giocatori che hanno voglia, perché no, di crescere e maturare in un ambiente professionalmente sano, si sminuisce lo sport che tanto amiamo per mere ambizioni di mercato e per lo show biz, parente stretto del mondo del calcio.
A mio modesto avviso si dovrebbe tornare ad una genuinità di fondo, genuinità che sta sfumando ma che può essere recuperata reclutando volti esperti e volti giovani dalle nostre palestre, tesserati e non tesserati legati alla nostra tradizione cestistica fatta di successi e sconfitte come ogni tradizione che si rispetti.
Mi ha fatto molto piacere, ed è stato un monito aggiuntivo per redigere questo articolo, leggere il pezzo sulla famiglia Zanier apparso tra le pagine di un quotidiano di area locale, pezzo in cui si racconta di uno scontro generazionale tra genitori e figli frutto del tempo e della dedizione per la cosiddetta “palla a spicchi”, nella verve che dovrebbe guidare, a differenza del dannato business padrone dei nostri giorni e dei nostri tempi, un così importante evento locale.

Liberalismo e libertinismo


di Stefano Pietrosanti
Negli ultimi tempi, accendendo la televisione, è facile incontrare la faccia sbarbata di Capezzone, o di un altro esponente del PDL, intenta a comunicarci quanto sia liberale la riforma che limita l’uso delle intercettazioni in sede d’indagine. Mi viene sinceramente da chiedermi come possa esserlo. Il loro sillogismo è semplice: la vita privata è sacra, la vita privata è libertà, allora difendere la libertà è rendere intangibile oltre ogni limite la vita privata di ogni cittadino. Il ragionamento ha il suo fondo di verità, ma, come spesso accade, viene usato in modo fazioso. Nell’usarlo, gli esponenti del PDL confondono liberalismo e libertinismo. Il liberalismo è quella dottrina politica che si occupa di difendere la libertà dell’uomo nella vita privata e pubblica; il libertinismo è una tendenza d’animo che si caratterizza per il rinnegare ogni obiettività morale e rifugiarsi in un privato aperto a ogni istinto o desiderio. Il liberalismo vede la socialità dell’uomo come una questione da gestire, perché è cosciente che proprio nell’interrelazione tra individui sta il rischio della prevaricazione; il libertinismo si limita a dire «ognuno nel suo privato faccia ciò che desidera». Questo vuol dire, in un paese con gravi problemi di criminalità organizzata e pubblica corruzione, buttare alla spazzatura uno strumento d’indagine sottoponendolo a un tempo massimo d’uso noto a tutti e quindi anche a chi trasgredisce. Significa guardare il popolo e dirgli: «lo so benissimo che hai qualcosa da nascondere, lo abbiamo anche noi, l’importante è che ognuno accumuli gli scheletri nel proprio armadio e non disturbi troppo». Questo è il principale messaggio che passano i membri dei governi Berlusconi succedutisi nella storia recente. A una socialità formale protetta dalla legge, si preferisce una socialità pubblica informale gestita dal Capo e una socialità privata, altrettanto informale, in cui ogni cittadino è libero, finché non pesta i calli a qualche interesse più grande, di gestire i propri interessi dentro o fuori la legge. Consciamente o inconsciamente, quello che sta facendo il berlusconismo al paese è un’ulteriore rottura dei legami di fiducia e di rispetto tra cittadino e stato.
Al reciproco rispetto, che richiede osservanza di regole comuni e quindi sforzo, si sostituisce la reciproca mancanza di rispetto, nella quale ognuno può fare – entro certi limiti – ciò che vuole, una sorta di carnevale troppo lungo in cui la società e la socialità si corrompono e muoiono.