martedì 24 novembre 2009

L’Agronauta contro le strisce blu

Come gli Argonauti ricercavano il Vello d’oro, noi de L’Agronauta andiamo in cerca di firme.
Insieme alle altre associazioni, anche la nostra redazione si è mobilitata a sostegno di chi vive il centro per lavoro o semplicemente per piacere. La nostra raccolta firme è iniziata lo scorso fine settimana con un risultato provvisorio che sfiora le cinquecento firme. Provvisorio perché il nostro impegno continuerà nei prossimi giorni, grazie anche alla collaborazione di numerosi commercianti che sostengono la nostra iniziativa. Ma non è tutto. In qualità di settimanale dedicato ai giovani abbiamo scelto di rivolgere la nostra attenzione anche agli studenti delle scuole e dell’università.
Ci ha spinto a intraprendere questa iniziativa la delusione per una delibera che ha trovato prima tutti d’accordo in commissione viabilità, opposizione compresa, e poi non ha trovato nessun tipo di ostacolo in consiglio comunale, grazie ad un’assenza ‘sospetta’ di molti membri dei partiti d’opposizione. Eppure oggi lo stesso Partito Democratico si fa paladino di una battaglia che nelle sedi opportune non ha avuto il coraggio, la capacità e l’onestà di combattere. Ma a ben vedere, la petizione promossa dal Pd, non sembra mirare all’annullamento effettivo della delibera e al ripristino della situazione precedente, ma piuttosto alla sua sospensione e alla creazione di nuovi posti di sosta libera, senza specificarne la proporzionalità, come si può leggere dal testo della petizione popolare e dalle dichiarazioni dei promotori: “Non siamo contro il piano sosta, ma contro il metodo di approvazione del provvedimento” come dichiarato alla stampa giovedì 19 Novembre.
Quindi ulteriori agevolazioni, ma nessun ritorno al passato, come noi invece auspichiamo insieme ai cittadini che protestano.
Si potrà firmare nei giorni di sabato e domenica tra le vie del centro, dalle 18 alle 20, in particolare all’angolo tra Corso Della Repubblica e via Eugenio di Savoia.Per ogni informazione potete scrivere a lagronauta@gmail.com.

E SE IL MISTERIOSO CONTINENTE DI ATLANTIDE FOSSE...LA SARDEGNA?


di Fabrizio Bossoli
“Innanzi a quella foce stretta che si chiama colonne d'Ercole, c'era un'isola. (...) In tempi posteriori, essendo succeduti terremoti e cataclismi straordinari, nel volgere di un giorno e di una brutta notte tutto in massa si sprofondò sotto terra, e l'isola Atlantide similmente ingoiata dal mare, scomparve”. Così parla Platone nel “Timeo” prima e nel “Crizia” poi, descrivendo lo splendore di Atlantide, una terra di forma rettangolare, ricca di fertili praterie, di sorgenti di acqua calda e fredda e di alte montagne che la difendevano dai venti del Nord; dove il sottosuolo era ricco dei più pregiati metalli, dove il terreno dava raccolti due volte l'anno, e la “popolazione delle torri” viveva a lungo ed in serenità. Questa isola perduta ha da sempre costituito un punto fermo dell'immaginario collettivo, un luogo mitico, sogno proibito di qualunque aspirante seguace di Indiana Jones, e nel corso del tempo in molti si sono dunque adoperati per individuare la porzione di globo terrestre in cui situare Atlantide. Ciò su cui si era comunemente d'accordo era però di basarsi sullo Stretto di Gibilterra (per l'appunto le “colonne d'Ercole” per definizione) come punto di partenza per ricercare poi, prevalentemente nelle acque dell'Oceano Atlantico, il corretto posizionamento della mitica isola. Ed è proprio qui che secondo Sergio Frau, giornalista di La Repubblica, nasce l'errore che ha reso per secoli inaccessibile la soluzione del mistero di Atlantide; se infatti le colonne d'Ercole erano realmente il limite estremo del mondo allora conosciuto dai Greci, e se oggi sappiamo che essi non si spinsero mai oltre Malta (perché, come documentato, nel Mar Tirreno era massiccia la presenza dei Fenici), ecco allora che ci accorgiamo dell'esistenza di un altro stretto, dove i Fenici stessi ponevano l'inizio delle terre della divinità di Eracle-Melquart: il Canale di Sicilia. E al di là delle riposizionate colonne d'Ercole, ci si chiede se esista davvero un'isola di forma rettangolare, in cui si alternano ritmicamente boschi, ridenti praterie e zone montuose, e in cui il sottosuolo era anticamente ricco dei più pregiati metalli (da qui il nome del Gennargentu). Un'isola in cui ancora oggi la popolazione è definita “degli anziani più anziani”, un'isola che all'epoca era caratterizzata dalla presenza di oltre diecimila giganteschi menhir che, del tutto sconosciuti ai Greci, non avrebbero potuto non impressionare qualsiasi visitatore...E la risposta a questa domanda, come intuibile, è che tale isola altro non possa essere se non la Sardegna stessa. Se a tutto ciò si aggiunge che, attorno al 1200 a.C., un fortissimo sisma sottomarino provocò effettivamente un maremoto di grandi dimensioni, colpendo soprattutto la Sardegna meridionale e radendo al suolo e sommergendo di fango la maggior parte dei menhir esistenti, ecco diventare difficile anche per i più scettici negare una relazione di sorta tra queste incredibili coincidenze. Se così fosse, certo ci troveremmo di fronte ad una scoperta di grandi proporzioni; e tuttavia, se si guarda alle ragioni per le quali Platone ebbe a parlare di Atlantide, se si comprende il valore di una società governata dalla armonica ricerca della sapienza, del coraggio, della temperanza e della giustizia, se si ammette quanto ci sia bisogno, ancor di più nella frenetica vita odierna, di una simbolo utopico a cui rivolgersi ogni volta che sia necessario, ecco che forse sarebbe più utile lasciare Atlantide lì dove è, nell'immaginario collettivo, senza darle una forma storica e geografica. Atlantide forse necessita di rimanere un sogno perché, come sostiene Aristotele, è dai sogni che nasce la speranza.

martedì 17 novembre 2009

Latina, già Littoria, domani Città Fantasma

di Andrea Passamonti
Una volta c’era l’Agorà, la piazza in cui i greci amavano incontrarsi, parlare, discutere, vivere la propria polis nel suo centro storico culturale. Negli ultimi anni l’idea di Agorà ha ceduto il posto a progetti di trasformazione dei centri storici in «centri commerciali naturali». Due prospettive, quella greca e quella nostrana, che nonostante si basino su modelli opposti hanno un unico comune denominatore: rendere vivo, nel senso più vero della parola, il centro della città.
A partire da dicembre, con il nuovo piano della sosta, il centro storico di Latina inizierà il proprio decadimento fino a trasformarsi in quello delle più classiche città fantasma del Far West.
Non intendo soffermarmi sulla improduttività di una misura del genere in un periodo di crisi. Hanno avuto modo di parlarne già in molti, criticando senza vie di scampo una delibera comunale che, con commercianti e clienti già sotto il peso della crisi, decide di aumentare quella che è a tutti gli effetti una tassa sul consumo. Soprattutto se la delibera non è accompagnata da trasporti pubblici frequenti ed efficienti, come invece accade in tutte le città con zone a traffico limitato.
Credo sia più interessante soffermarsi sugli aspetti sociologici del problema.
Il centro di una città è il luogo di incontro per eccellenza. Quando i cittadini decidono di riunirsi è naturale che lo facciano nelle piazze caratteristiche della loro città, che diventano il principale strumento che ha l’amministrazione comunale per l’interazione sociale tra i propri cittadini. Riqualificare piazze e favorire la socializzazione diventa un dovere per chi aspira a governare una comunità.
Al contrario, la misura decisa dal Comune ha come unica e indiscutibile conseguenza quella di disincentivare l’appartenenza alla città e favorire rapporti con raggio massimo a livello di quartiere, se non addirittura di condominio. E per chi si sciacqua spesso la bocca con l’esaltazione della Littoria che fu, questa è una contraddizione inaccettabile.
Ma non è tutto.
La misura avrà effetti esponenziali se, come pare, il pagamento della sosta verrà esteso anche alla domenica, il giorno in cui i cittadini affollano il centro città.
Rispondendo alle accuse l’amministrazione ha provato a giustificare il provvedimento con l’esigenza di evitare parcheggi lunghi e favorire «soste dinamiche». In particolare per «restituire il centro storico ai residenti, alle famiglie ai commercianti e non renderlo schiavo di chi lavora negli uffici e dei non residenti» come l’assessore Patrizia Fanti ha affermato, non notando incongruenze ovvie nel suo ragionamento: che il centro è in realtà di tutti i cittadini (come ogni area pubblica), che è uno dei quartieri meno popolati e che i commercianti, senza il consumo dei non residenti, probabilmente durerebbero al più qualche mese.
Senza dimenticare che subiranno le conseguenze di questo atto di inciviltà anche (e forse soprattutto) gli utenti dei servizi pubblici del centro storico. Un esempio per tutti è quello degli studenti che frequentano quotidianamente la biblioteca comunale. Senza nessun tipo di agevolazione (ma anche se ci fosse sarebbe comunque un notevole costo in più) dovranno scegliere tra lo sborsare cinquecento euro l’anno, avventurarsi in un servizio di trasporto pubblico certamente non in grado di sopperire a un problema così importante o rimanere a casa, tra computer e programmi televisivi.
Insomma, c’è da augurarsi che in una prospettiva da Far West i cittadini si ribellino a questa ingiustizia come gli indiani si ribellarono ai cowboy, sperando che la storia ci regali un esito più felice.

Incomprensibile Brunetta, a cosa serve il giuramento?


di Martina Nasato
Dopo essere stati puniti in quanto “fannulloni” e “assenteisti”, i dipendenti pubblici vengono ora nuovamente umiliati, vedendo annoverato, come conditio sine qua non per il loro lavoro, un pittoresco “giuramento di fedeltà alla Repubblica e di leale osservanza della Costituzione e delle leggi”, pena licenziamento. L'autore di questa trovata geniale, inserita nel ddl sulla semplificazione amministrativa, è, naturalmente, il Ministro Brunetta. Il Ministro vuole abbattere tempi e barriere burocratiche, rendere più efficienti gli enti pubblici... quel che non è chiaro è come tale giuramento possa contribuire al raggiungimento di detti obiettivi. Ogni cittadino dovrebbe essere fedele alla Repubblica, ma non serviva un ddl per sancire tutto ciò: questa stessa formula è già prescritta dall'art 54 della Costituzione. E, senza nulla togliere alla categoria, i dipendenti pubblici non sono figure istituzionali: un giuramento di siffatto spessore appare decisamente sproporzionato. Come ignorare, poi, il fatto che i rappresentanti dei cittadini, per primi, stravolgano le leggi, a loro uso e consumo? E' un po' pretenzioso, forse, addossare la colpa della crisi etico­sociale ai dipendenti statali che non svolgono il loro mestiere nel migliore dei modi. Certo, nel settore pubblico ci sono “rami secchi da potare”, ma come può questa farsa pomposa e ampollosa velocizzare l'informatizzazione delle pratiche per il cambio di residenza, ad esempio? D'altra parte, c'è da chiedersi se davvero i dipendenti pubblici non rispettino le leggi, la Costituzione addirittura. A ben guardare, questo giuramento di fedeltà lo si può scorgere ogni giorno, nel recarsi al lavoro nonostante le critiche, le umiliazioni e le leggi punitive emanate da un Ministro, che finora non è riuscito, di fatto, a pervenire ad un sistema più efficiente. Il giuramento di fedeltà è nelle buste paga, tassate fino all'ultimo centesimo, perché i dipendenti statali non possono evadere il fisco. Non sarebbe azzardato chiedere che il giuramento di fedeltà alla Repubblica, alla Costituzione repubblicana e alle leggi dello Stato venga rinnovato, piuttosto, da quanti, investiti di poteri istituzionali, stanno compiendo scempi ai danni della legalità italiana.

martedì 10 novembre 2009

Questo crocefisso non s’ha da fare


di Claudia Giannini
«La presenza del crocefisso, che è impossibile non notare nelle aule scolastiche, potrebbe essere facilmente interpretata dagli studenti di tutte le età come un simbolo religioso. Avvertirebbero così di essere educati in un ambiente scolastico che ha il marchio di una data religione».
Con queste parole la Corte europea dei diritti dell’uomo sancisce il divieto di esporre il crocefisso nelle aule scolastiche. La sentenza è del 3 novembre scorso e ha segnato l’inizio in Italia di un dibattito pronto a durare a lungo.
La decisione è stata presa in seguito all’appello di una cittadina italiana di origine finlandese, Soile Lautsi Albertin, che dopo i rifiuti da parte dei tribunali italiani, ha deciso di fare ricorso presso la corte di Strasburgo.
Ma le conseguenze di questa decisione non si sono fatte attendere, anzi infiammano gli animi di tantissimi italiani, che si sono sentiti colpiti in una tradizione radicata come quella cristiana o nella loro propria fede. Non sembra tuttavia legittimo questo risentimento; anzi fa risaltare la legittimità e la giustezza della decisione europea.
Si, perché si può intendere il crocefisso o come puro simbolo di fede o con significato ‘culturale’, laddove comunque questo ‘culturale’ resta piuttosto vago. In entrambi i casi non ci sono ragioni per ammettere il crocefisso in aula. Se rappresenta una fede, è ciò che di più lontano può coniugarsi con un ente pubblico come la scuola, che dovrebbe avere un altissimo livello di laicità, proprio perché pubblico, laddove pubblico vuol dire di tutti, non dei soli cristiani.
D’altra parte molti italiani lo elogiano in quanto simbolo della cultura italiana. E a questo punto c’è da offendersi, perché la tradizione italiana è molto più ricca di quanto un crocefisso possa rappresentare. Certo la cristianità ne rappresenta alcuni contenuti, ma non tutti.
Basti pensare al fatto che il crocefisso è entrato nelle aule scolastiche solo nel 1859 con la Legge Casati e ne è stata legittimata la presenza ufficialmente solo sotto il fascismo, dunque in periodi storici in cui la linea di confine tra stato e chiesa era tutt’ altro che demarcata.
Ma oggi che l’Italia non è più un Paese confessionale, oggi che si grida alla laicità e soprattutto all’incontro di culture, l’ostentazione di questo simbolo religioso in ambienti pubblici appare realmente fuori luogo.
Il valore della tradizione o della fede per i credenti, va custodito in altro modo, nel profondo di se stessi, lasciando ai luoghi pubblici il loro ruolo d’incontro e di confronto. Anche perché il crocefisso non vuol dire Italia. L’Italia, si spera, è molto altro di più.

SOS Pubblico


di Martina Nasato
Non nascondiamoci dietro un dito: il Governo delle “grandi riforme” non ha fatto altro che adattare il settore della pubblica amministrazione ad un bilancio statale sempre più deprimente, attraverso le macchinose trovate del Ministro Brunetta. A coadiuvare il suo operato, in un settore più specifico, quello dell'Istruzione, il Ministro Gelmini. Non sarebbe sbagliato, pertanto, ravvisare nella categoria degli insegnanti delle vittime di questa politica che sta scatenando una guerra fra poveri. Discorsi ormai stantii, che hanno animato scioperi, movimenti, sindacati, pagine di giornali nell'ultimo anno e mezzo, sui quali non voglio dilungarmi oltre. Sono ormai note ai più le bizzarre trovate anti-fannulloni e anti-assenteismo del Ministro Brunetta, a favore di una meritocrazia fittizia e molto approssimativa. Tra queste, la decurtazione dalle buste paga di una percentuale dalla voce “retribuzione professionale” per ogni giornata di malattia! Sorvolando sull'improbabile costituzionalità del decreto anti-fannulloni, davanti alla pandemia dell'influenza A, i docenti sono stati costretti a porsi più di un interrogativo, dato che il Ministro Gelmini ha ripetutamente raccomandato ad alunni e personale scolastico di non andare a scuola se, presumibilmente, contagiati dal nuovo virus. Ora il dilemma: stando ai consigli forniti dai medici, non bisognerebbe rientrare a scuola o al lavoro prima di 48 ore dalla guarigione. Tenuto conto che il decorso medio di un'influenza dura circa 7 giorni e che lo Stato trattiene in media €6,50 per ogni giorno di malattia, a conti fatti, un insegnante subirà una sorta di multa di €50 nel caso si ammalasse. Questi soldi verranno tolti a stipendi che all'inizio della carriera arrivano a mala pena a €1000 e a fine carriera restano al di sotto della soglia di €2000. E' innegabile, peraltro, che le scuole siano luoghi ad alto rischio di contagio, quindi è altamente probabile per un docente contrarre il virus. C'è da chiedersi con che animo vada a dormire la sera il dottor Brunetta.

martedì 3 novembre 2009

Latina olimpica


di Andrea Passamonti
Sarebbe dovuta essere il simbolo del rilancio dei quartieri da sempre considerati dormitorio, con tutte quelle bandiere un simbolico anello di congiunzione tra Latina, l’Europa e il resto del mondo. Invece, dopo più di un mese dai tanto acclamati mondiali di tiro con l’arco 3D, la rotatoria che unisce i quartieri Nascosa e Nuova Latina si trova a essere il simbolo dell’inconcludenza italiana in generale e pontina in particolare.
Non sarà sfuggito ai residenti un senso di abbandono.
I proclami della vigilia, nonostante il ritardo dei lavori, avevano lasciato sperare per il meglio. In fondo, se i fondi comunali erano già stati destinati, perché non concludere i lavori di ultimazione della fontana?
L’interrogativo purtroppo è rimasto senza risposta. O meglio, la risposta dell’amministrazione per bocca dell’assessore Guercio è arrivata il 4 Ottobre («I lavori riprenderanno domani»), ma un mese dopo lo spettacolo non è cambiato.
Poco importa se l’opera sarebbe dovuta essere completata il 30 Agosto. I cittadini dovranno accontentarsi di qualche bandiera scolorita (si spera almeno per difetto di fabbricazione e non per riutilizzo) e del solito panorama da «Lavori in corso» che caratterizza l’Italia degli ultimi anni.
Ma al contrario di quanto si pensi non c’è da disperare, anzi, si fermi tutto per qualche anno!
Dopo la candidatura di Roma (nonostante abusi e ritardi stratosferici in occasione dei mondiali di nuoto) e di Venezia (più di otto anni per il ponte di Calatrava) siamo pronti anche noi.Chiediamo ufficialmente al Sindaco di proporre Latina per le olimpiadi del 2020.

Dandy ed esperti


di Stefano Pietrosanti
A volte le persone sembrano ridursi a due tipi umani: il dandy e l’esperto. Uno sguardo troppo distaccato e uno troppo vicino all’oggetto di studio. Se fossero professori, il primo non farebbe lezione, discorrerebbe invece con la platea disceso dal palco, spalle alla cattedra, magari appoggiandovi sopra – di sbieco – il gomito. Non scriverebbe nulla; solo ogni tanto, toccandosi la giacca spiegazzata, si fermerebbe per chiedere con distrazione “mi state seguendo?”. Non che gliene debba importare molto, solo un “mi state seguendo?” sospeso per rendere il fatto che in fondo siamo tutti umani e che poco o nulla decidiamo lì, in quell’aula, in quella stanza, in quella struttura, ma tutto fuori, nei nostri casi, nei nostri incontri, nella nostra vita. Né sforzi, né fatica, ma preponderante il meccanismo impersonale del mondo che per l’entrare o non entrare in quell’ascensore a quel momento decide della realizzazione o non realizzazione di un uomo e non concede appelli straordinari. Il secondo avrebbe sicuramente la cravatta, ma non sarebbe in tono con la giacca – troppa la fretta nello sceglierla – e, con in mano un mouse-puntatore laser, correrebbe come un beagle impazzito tra lavagna, computer e proiettore. Dare il meglio, fare il meglio. E’ futile? Non importa. Solo restringendo l’indagine a un dato intorno d’attimi si può raggiungere un senso, per quanto minuto. Certo anche un invisibile refolo di senso è meglio e più del non-sense imperituro, ottenebrante; ha dedicato la vita a qualcosa lui, che fosse lo studio del ripetersi di un segmento di informazioni genetiche o dell’eterogeneità dei dati statistici non importa. L’ha dedicata. La vita come dono. La vita come milizia. Militia vita ominum super terram est. Lo diceva Lutero, tirando una lunga linea di gesso bianca sulla parola “perdono”. Anche lui non farebbe sconti, ma diverso il metodo: una prova continua. La differenza tra un’unica distratta richiesta d’impossibile pagamento e l’insistenza dell’usuraio shakespeariano, ogni giorno davanti alla porta per fare il conto degli interessi composti. Fatica, sudore. Lui sorride. Quando studiava non ha visto il mare per quattro anni. Lo dice sorridendo. Lui ha ristretto così tanto lo sguardo da non perdersi. Ha focalizzato, perfettamente e come nessuno mai, un unico punto e crede – rinsecchite in un angolo fuori fuoco tutte le domande turbative di questa quiete – di essere felice.
Quando le persone sembrano ridursi a questi due tipi umani, ti ricordi, in un attimo raccolto come di preghiera, che abbiamo semplicemente tanta paura. Forse abbiamo perso il frammento di granito, l’oplita, il cittadino greco.