martedì 27 aprile 2010

La destra italiana: “tracollo” ma non mollo


di Matteo Napolitano
Il giornalista, drammaturgo e scrittore russo Isaac Babel in un suo celebre aforisma ricordava che “nessun tipo di ferro può spaccare la terra con una forza al pari di quella esercitata da un punto a capo messo al posto giusto.”
Il punto e a capo a cui mi riferisco è ovviamente quello imposto da Gianfranco Fini al suo partito, al Pdl, mi riferisco a quella rottura teatrale e spettacolare, a quell’uno contro uno che lo ha visto affrontare Silvio Berlusconi come mai l’opposizione abbia avuto il coraggio di fare, che lo ha visto portare avanti le sue argomentazioni con decisione e chiarezza e soprattutto mantenendo una posizione fondamentalmente istituzionale, come ci si dovrebbe aspettare dal Presidente della Camera. Le immagini della diretta tv hanno dato l’impressione di una destra spaccata, lacerata dai conflitti interni, quasi al livello del Pd e della generica sinistra italiana, divisa da una dicotomia che vede contrapporsi la fazione pro Lega - pro Berlusconi alla fazione pro Fini, che ha assunto ormai il ruolo di oppositore all’interno della maggioranza stessa.
Da qui dovrebbe venire automatica una riflessione che riguarda proprio l’opposizione, siamo arrivati ad un punto in cui una stessa coalizione riesce ad unirsi e ad opporsi nello stesso momento senza trovare ostacoli, senza trovare proposte alternative all’interno di un ingranaggio di governo evidentemente compromesso, senza trovare, in sintesi, altro che sé stessa.
Secondo le stime statistiche il partito, o movimento che dir si voglia, a cui Fini darà vita, varrà almeno un 6-7%, ma attenzione poiché un altro 30% potrebbe unirsi a questa ondata si parla dei delusi dal Pdl e dalla Lega che mai andranno “dall’altra parte”, si parla di elettori del Pd stufi delle logiche di un partito fantasma, si parla della coltre di astenuti alle scorse elezioni regionali e degli indecisi, si parla insomma di un’altra destra all’interno della destra stessa, di una coalizione all’interno delle coalizioni di governo.
Il malessere della destra non può però non essere diagnosticato anche a partire dai segnali delle realtà locali, ciò a cui mi riferisco è ovviamente lo scandalo Zaccheo poiché una realtà come quella di Latina e provincia non può e non deve essere sottovalutata. Questi territori hanno sempre rappresentato delle roccaforti per la destra, hanno sempre portato acqua nei mulini prima dell’Msi, poi di An e FI e successivamente del Pdl, non dimenticando la Dc che, pur essendo un partito non propriamente di destra, è forse premonitrice più di altro delle scelte e degli scandali che si sono susseguiti in questi tempi (vedi appalti, caso Fondi, raccomandazioni ecc…) .
E’ sicuramente molto difficile che tutto ciò possa durare ancora a lungo. Questi scontri. Questo partito. Questa legislatura. Insomma questa destra. Non destra.

Intervista a Leo Colucci, Presidente Arci Comitato Provinciale: perché dobbiamo ricordare la Liberazione.


di Martina Nasato

Innanzitutto, è ancora importante festeggiare la Liberazione, a distanza di 65 anni?
Assolutamente sì. La Liberazione, nonostante le forti strumentalizzazioni da parte degli estremismi di destra e di sinistra, rappresenta nella storia recente italiana, il più alto esempio di valori umani, storici, sociali e culturali. Grazie alla Resistenza rinacque una coscienza collettiva che portò alla fine della dell’oppressione nazifascista, al giorno della Liberazione dell’Italia e alla scrittura in pochi mesi della Carta Costituzionale cioè di tutti quegli eccezionali principi validi e attuali ancora oggi e capisaldi della nostra stessa democrazia. Allo stesso tempo è fondamentale non cadere nel tranello di chi vuole ridurla ad uno scontro tra opposte fazioni né sminuirla come mito obsoleto. Va celebrata come festa di pace, libertà e giustizia. Come festa d’Italia e degli italiani.

Cosa rispondi a quanti vorrebbero prendere le distanze da questo singolo avvenimento, cercando di inquadrarlo nel più ampio contesto della Seconda Guerra Mondiale? Ritieni che siano in atto tentativi di "revisionismo storico"?
Per l’Italia i 2 anni in cui si forma Resistenza, nell’arco della Seconda Guerra Mondiale, sono quelli che più determinarono la presa di coscienza da parte della popolazione delle nefandezze e degli orrori del regime fascista che fino ad allora era comunque riuscito ad avere in pugno la situazione nonostante gli omicidi, le violenze e la miseria. Quel momento portò ala luce tutte le contraddizioni e la pochezza del sistema politico dittatoriale di Mussolini. E’ chiaro che una classe politica conservatrice e fortemente legata movimenti e partiti neofascisti tenda a riformare gli istituti educativi e le leggi dello Stato con l’obiettivo attuare un revisionismo storico che va a beneficio non dell’Italia ma di una minoranza di persone che ancora oggi si dichiarano fasciste e inneggiano al Duce.
Al crescere di questi fenomeni è necessario oggi più che mai, riscoprire i principi che hanno ispirato la Resistenza antifascista e la lotta di Liberazione. Principi validi e attuali che devono tornare ad essere il motore del nostro impegno politico quotidiano: il rispetto della dignità di ogni persona, l'aspirazione alla giustizia sociale, la solidarietà e la pace.

Si sente dire, ultimamente, che il 25 aprile sia una data strumentalizzata: non la festa degli antifascisti, ma la festa della sinistra. Quasi che si facesse ogni anno un processo, un rinnovato "j'accuse" alla destra, la quale, però, è ormai cambiata. In questo modo si tenderebbe ad allontanare, a emarginare quanti attualmente non sono di sinistra. Tu cosa ne pensi?
Riconosco che una certa sinistra, diciamo massimalista, tenda ad appropriarsi della Festa della Liberazione come opportunità politica , nel tentativo di far presa sui cittadini e aumentare i consensi. E’ vero anche che questo inasprimento delle parti è opera astuta e programmata della destra conservatrice che inasprisce la dialettica con falsità, illazioni e provocazioni sui fatti che portarono alla Liberazione dell’Italia. La sinistra abbocca e i partiti e le forze moderate si tirano indietro, commettendo un grosso errore e politico e di fatto non portando rispetto ai partigiani, alle Forze Alleate e a tutti coloro che rischiarono la propria vita per restituirci la pace, la democrazia e la libertà.

L'ARCI raccoglie tra i suoi iscritti soprattutto ragazzi: stando alla tua esperienza diretta, come si rapportano i più giovani con la Resistenza e con la Liberazione? Che opinioni hanno e, soprattutto, sono sufficientemente informati?
L’Arci oggi rappresenta uno dei pochi fermenti culturali in Italia. E’ un’associazione fatta di tante associazioni che si occupano di solidarietà, attività ludiche, e di tutte le forme d’arte e d’espressione: musica, letteratura, teatro. Tutto questo fa circolare di più e meglio le idee, stimola il confronto, aiuta il formarsi di una coscienza critica. Però non ripara i giovani da uno dei più grossi problemi che ci sono oggi in Italia: il problema della mancanza di autonomia ed indipendenza dell’informazione! Una comunicazione sempre più zoppa, opportunamente controllata da chi detiene il potere, un profluvio di notizie che non diventano mai approfondimento, cultura, pensiero… tutto veloce, tutto superficiale, “usa e getta”, tutti che parlano parlano senza dire nulla, e i fatti reali che diventano opinabili perché scientemente sporcati con allusioni, insinuazioni e menzogne. Tutto ciò ha impatto anche su molti ragazzi che pur trovandosi nell’Arci, un’associazione che fa della cultura e dell’impegno civile la propria bandiera, non conoscono ancora oggi il movimento della Resistenza, il periodo che portò alla Liberazione

Qualche ultima considerazione?
Le strumentalizzazioni sul 25 Aprile sono davvero disgustose per chi come me vorrebbe solo ricordare dei fatti e come italiano ed andarne fiero. Una festa di tutti gli italiani, per ricordare anche il sacrificio ed il coraggio di migliaia di persone che per dignità non per odio obbedirono agli ideali di amor di patria, pace e libertà e diedero vita ad una rinascita collettiva della nostra Nazione. Viva il 25 Aprile, Viva la Costituzione e Viva l’Italia.

Il 25 aprile: Liberazione o Guerra civile?


di Claudia Giannini
A differenza della Francia o dell’Inghilterra, l’Italia non si è gloriata di una vera rivoluzione. È anche per questo che la data del 25 aprile dovrebbe assumere un forte significato. Eppure anche in questo caso il Paese risulta diviso dalle polemiche e dalle interpretazioni spesso antitetiche che sono state date a questa giornata.
L’idea di liberazione e di rivoluzione rispetto a uno stato dittatoriale e opprimente, è stata negli ultimi tempi abbandonata a favore di una visione più critica che pone l’accento sulle luci e le ombre della Resistenza, tanto da adottare il termine di “guerra civile”. Ma fino a che punto questo è vero? Se si intende la guerra civile semplicemente come scontro violento tra persone appartenenti allo stesso popolo, da un lato si può essere d’accordo, ma dall’altro si sacrifica la vera natura di questo scontro. Il vero nemico erano i Nazisti, i tedeschi che pretendevano il controllo di un territorio che non gli apparteneva di diritto. Per quanto riguarda la popolazione italiana, questa era divisa tra i Repubblichini che appoggiavano l’invasore tedesco, i partigiani che lo combattevano e la stragrande maggioranza degli italiani che osservava e attendeva la propria sorte, senza immischiarsi direttamente alla lotta di Liberazione.
Partendo da questo presupposto mi sento di escludere la definizione di “guerra civile”, troppo semplicistica e per un verso limitativa. Ciò non significa che non si debbano ricordare tutti gli italiani che sono morti in quella circostanza, indipendentemente dalla parte che avevano scelto. Le uccisioni e le stragi sono state il duro prezzo da pagare per la democrazia, ma non per questo sono giustificabili.
A posteriori però, da cittadina italiana che crede fortemente nella democrazia, non posso che inchinarmi di fronte a coloro che l’hanno resa possibile e, d’altra parte, condannare chi si è schierato dalla parte dell’autoritarismo e del nazismo.
Per questo ho festeggiato il 25 aprile, oggi festa Nazionale. Festa che dovrebbe unire tutti gli amanti della libertà, della giustizia sociale e della democrazia.

martedì 20 aprile 2010

Economia e senso comune


di Stefano Pietrosanti
Ultimamente ho ricevuto un paio di inviti a un gruppo di facebook organizzato da fan di Beppe Grillo; questo gruppo pretenderebbe di abbassare il prezzo della benzina tramite un accordo di consumatori che decidano di lasciare Shell ed Esso per la concorrenza, sperando di far abbassare a queste il prezzo e cosi' ottenere effetti sistemici. Ammettiamo pure che milioni di persone in tutto il mondo si coordino per questa azione di monopolio di domanda, analizziamo che cosa succederebbe: la caduta di domanda per gli idrocarburi Shell-Esso si tradurrebbe in uno shock positivo di domanda per i loro concorrenti oligopolistici, che, ammesso non cerchino soluzioni manifestamente collusive, concordati e simili, tenderebbero a far aumentare i loro prezzi come conseguenza diretta dell'aumento di domanda. In una situazione competitiva, questo porterebbe (volendo essere assolutamente irrealistici ed iperbolici) a una discesa del prezzo dei prodotti Shell, ma solo (e sempre in un'iperbole irrealistica) fino al punto in cui questi non incontrerebbero il prezzo minimo per le necessita' di gestione della terza maggiore industria del pianeta, che non sono scarse. A quel punto una parte dei consumatori tornerebbe a fare il pieno in distributori Shell/Esso. Risultato? Assolutamente aleatorio: dipenderebbe soprattutto da quanto e quanto velocemente alzerebbero il prezzo i competitors di Shell e potrebbe facilmente portare a una situazione di lieve abbassamento dei prezzi di Shell con un medio rialzo degli altri e quindi a un peggioramento medio della situazione, con un rischio di traslazione di potere di mercato da una grossa compagnia occidentale, per quanto zozza e collusa e tutto il peggio che se ne possa dire, a compagnie in mano a player con interessi geopolitici assolutamente opposti ai nostri. Non che cio' voglia dire "bene la Shell!", oppure, "la Shell e' un buon paladino di interessi geopolitici occidentali" (come non lo sono la Total, l'ENI e tutte le compagnie globali con loro interessi globali e sede in Occidente), ma che sicuramente e' piu' vicina a questi degli altri concorrenti russi, arabi e cinesi.Tornando con i piedi per terra e smettendola di seguire contorti ragionamenti che hanno giustificazione nella mia coscienza economica di studente che ancora si deve laureare, e quindi hanno giustificazione parziale e incerta, voglio solo far riflettere tutti i seguaci di un istrione che si fa trascinare in canotto sulle mani di una folla sul fatto che per affrontare certi problemi ci vogliono nozioni e doti tecniche. Mi appello a tutti coloro che seguono questi movimenti, perche' normalmente sono persone ben istruite e giovani: se siete un ingegnere, vorreste mai che l'iniettore della vostra macchina fosse progettato da un letterato? Se siete un letterato, vorreste mai leggere la ricerca filologica di un chimico con qualche pretestuoso interesse letterario? Se siete archeologi, mettereste mai il vostro prezioso reperto romano, trovato dopo ore di scavo faticoso e infruttuoso, nelle mani di un economista ignorante di storia antica? E cosi' procedendo immagino (spero) di generare una serie di ovvi e secchi no. Cosi', per piacere, quando trattate di temi economici, non riferitivi al vostro fallibilissimo senso comune, ne' alle nozioni di uno studentello come me, cercate almeno un laureato con successo e buoni voti, parlateci per un paio di giorni e poi, solamente poi, esprimete le vostre opinioni.
Con sentito ringraziamento

Legge Impedimento


di Riccardo Di Santo
Ho sempre odiato il fatto di porre le prefazioni all’inizio dei libri: come si può capire ciò che il critico scrive sul testo se prima non si è letto questo? Ed è per questo che, prima di dire qualsivoglia cosa sulla legge n.51/2010 riguardante il “legittimo impedimento”, intendo riassumerla affinché ciascuno possa farsi la sua opinione sull’obiettivo perseguito da essa e sui modi seguiti. Innanzitutto chiariamo che per legittimo impedimento s’intende la situazione in cui l’assenza dell’imputato è dovuta all’assoluto impossibilità di quest’ultimo di comparire, per caso fortuito o forza maggiore, all’udienza. Il testo normativo consiste di due semplice articoli, quasi ridicoli nella loro semplicità: L’uno afferma che, per il Presidente del consiglio dei ministri ed i suoi Ministri, costituisce legittimo impedimento l’esercizio delle attività loro attribuite dalla legge e dai regolamenti e qualsiasi attività considerabile coessenziale alla “funzione di governo”. Di fronte all’attestazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri della presenza di un impegno, il giudice rinvia il processo ad altra udienza che non può distare più di sei mesi dall’ultima. Il corso della prescrizione rimane sospeso per l’intero durata del rinvio e, guarda caso, «Le disposizioni del presente articolo si applicano anche ai processi penali in corso(…)». Il secondo articolo è il più paradossale, in quanto fissa un limite temporale d’efficacia alla stessa legge affermando che essa si applicherà fino all’entrata in vigore di una improbabile legge costituzionale recante le (N.D.A. nuove) prerogative del Presidente del Consiglio e dei Ministri, e comunque entro 18 mesi dalla sua entrata in vigore «(…) al fine di consentire il sereno svolgimento delle funzioni loro attribuite dalla Costituzione e dalla legge». Solo ora si possono porre osservazioni e/o critiche alla legge che finora si dividono in due principali correnti di pensiero dei costituzionalisti. Alcuni giudicano che la legge (come quella sulle rogatorie del 2001) verrà di fatto resa inutile dall’interpretazione che di essa faranno i magistrati, in base all’art. 420-ter del codice di procedura penale, richiamato dalla stessa, il quale disciplina che il riconoscimento della presenza o meno di un impedimento è affidato alla libera valutazione del giudice. Altri invece riconoscono nella legge la presenza di una evidente illegittimità costituzionale in quanto essa crea di fatto delle nuove prerogative agli organi costituzionali, e come già affermato nella sentenza 262/2009 che ha bocciato il lodo Alfano, tali prerogative devono essere concesse solamente mediante legge costituzionale e non attraverso il legislatore ordinario. La prospettiva descritta nel secondo articolo della legge in questione, secondo la quale essa si ricollega ad una futura legge costituzionale è totalmente insufficiente a garantire questa da un giudizio di illegittimità. La questione è delicata in quanto ci si trova di fronte ad una legge che gioca la sua esistenza sia sui precedenti della corte costituzionale e sia sulla sua stessa inutilità di fondo. Personalmente ritengo che la soluzione sia nel mezzo: cioè che la legge rimarrà di fatto inapplicata grazia alle interpretazione che riceverà dai giudici fino al suo probabile giudizio di illegittimità costituzionale. Tutto ciò sempre che l’opposizione non partecipi all’ennesimo tradimento dei suoi elettori e partecipi attivamente ad una legge costituzionale fatta per il beneficio di una sola persona.

martedì 13 aprile 2010

The dark side of the Church


di Andrea Passamonti
Pongo subito una questione: come definireste un’ organizzazione che si pone al di sopra delle regole tanto da invitare i propri adepti a disattenderle, che discredita e attacca chi queste regole le rispetta, che vive nell’omertà sugli atti illeciti dei propri membri e che pretende di avere un’autorità morale superiore? Penso che nessuno avrebbe da ridire se la si definisse mafiosa. E nessuno potrebbe obiettare che questo comportamento è esattamente quello che la Chiesa Cattolica ha dimostrato di mantenere nel corso della sua storia, in particolare per quanto riguarda la delicatissima questione delle molestie commesse da diversi suoi sacerdoti ai danni di moltissimi bambini. Questo non significa che la Chiesa sia la nuova mafia, che commetta omicidi e chieda il pizzo. Semplicemente il comportamento tenuto dal Vaticano si addice più a un’associazione a delinquere che a un ordine religioso.
Sarebbe oltretutto sbagliato ammettere che il marcio del clero appartiene a tutti i sacerdoti che ogni giorno recitano la propria messa, ma allo stesso tempo bisogna saper affermare con decisione che i nuovi elementi che giornalmente vengono alla luce fanno riflettere sulla presunta supremazia morale della Chiesa Cattolica.
Per chiarirsi le idee è bene spiegare meglio di cosa stiamo parlando: quello degli abusi sessuali sui bambini è per la Chiesa un problema mai risolto e di cui si hanno prove documentate, ma è forse solo oggi che la questione va a toccare le più alte cariche del clero.
Le vicende che vedono implicati l’attuale Papa Ratzinger e il Segretario di Stato Tarcisio Bertone risalgono ad alcuni anni fa, quando entrambi facevano parte della Congregazione della Dottrina delle Fede ricoprendo rispettivamente le cariche di Prefetto e Segretario.
L’attività di questa Congregazione, eretta nel 1965 semplicemente per «favorire gli studi volti a far crescere l’intelligenza della fede», inizia a venire alla luce quando, in una lettera ai vescovi del 2001, Ratzinger e Bertone dichiarano la competenza della Congregazione nei casi di molestie durante le confessioni, citando una disposizione segreta: il Crimen Sollicitationis. Questo documento datato 1962 regola le procedure da seguire nei suddetti casi, ma quello che colpisce è il carattere di segretezza di questa disposizione: «Nello svolgere questi processi si deve avere maggior cura e attenzione che si svolgano con la massima riservatezza e […] su di essi si mantenga perpetuo riserbo». Inoltre, chiunque avesse violato questa segretezza sarebbe stato immediatamente scomunicato dal Papa. Insomma, non è detto che si venga allontanati dalla Chiesa, ma chiunque facesse una pubblica confessione verrebbe immediatamente scomunicato.
E questo modus operandi è stato seguito alla lettera dalle diocesi come dai vertici del clero.
Lo scandalo del parroco di Milwakee che avrebbe abusato di oltre duecento bambini sordi senza mai essere stato rimosso, portato alla luce dal New York Times, è stato il più clamoroso forse perché riportato da una fonte così autorevole.
Il caso forse più inquietante di cui (per ora) si dispone, riguarda l’atteggiamento tenuto dal cardinale Ratzinger in uno dei casi di pedofilia. Siamo nel 1981 ad Oakland, in California, e un prete pedofilo richiede alla sua diocesi di tornare allo stato laicale. La diocesi rigira la domanda alla solita Congregazione guidata da Ratzinger: ci si aspetta una risposta rapida e decisa. Invece? Invece Ratzinger prende tempo e dopo cinque anni invia una lettera dove esprime la sua inquietante opinione: «Questo tribunale, sebbene trovi significativi gli argomenti in favore della rimozione, allo stesso tempo ritiene necessario considerare il bene del pentito insieme a quello della Chiesa Universale ed è incapace di fare luce sui danni che provocherebbe tra i fedeli il garantire questa richiesta».
Quello del garantire il bene della Chiesa è un atteggiamento che si ritrova spesso negli episodi di pedofilia all’interno del clero. Non c’è interesse al bene delle vittime degli abusi, ma solo a quello dell’apparato di cui si fa parte. Un atteggiamento perfido e deplorevole.
Un esempio di stretta attualità riguarda il servizio de Le Iene in cui un prete, dopo essere stato ripreso a molestare un ragazzo che si diceva minorenne, davanti all’inviato del programma che lo invita a confessare alla polizia o a un suo superiore l’accaduto, prima prova a giustificarsi non considerando grave la molestia, poi risponde con un calma sconvolgente che l’unica cosa che intende fare è pregare che il signore lo aiuti e lo accompagni nel ministero. E aggiunge: «Io ormai ho rimosso la cosa. Ho chiesto perdono al Signore, mi sono confessato». A dir poco inquietante. Ed è forse questo il male maggiore: se perfino i sacerdoti si sentono puri grazie a una semplice preghiera, indipendentemente dai reati commessi, allora figuriamoci i semplici fedeli.
Così in questo clima di indulgenza gratuita non c’è da stupirsi se mafiosi e camorristi hanno case piene di santini e crocifissi, né se c’è ancora chi difende l’atteggiamento del Vaticano sperando, forse, che la (s)vendita delle indulgenze salvi anche loro.
Ieri, con una nota, il Vaticano ha deciso, finalmente, che si deve sempre seguire la legge civile per quanto riguarda la denuncia dei crimini alle appropriate autorità. Resta da vedere se dietro a questa presa di posizione - che comunque non assolve la Chiesa per le sue negligenze - non si nasconda un altro documento segreto che prevede l’esatto contrario.

Questa Cina suona sempre la stessa musica


di Fabrizio Bossoli
“Il ministero della Cultura non ha dato il via libera per gli show nella capitale e a Shanghai”. Con questa breve comunicazione il governo Cinese annulla di fatto i concerti di Bob Dylan a Pechino e Shangai e smentisce ancora una volta la veridicità della “presunta” nuova politica di apertura culturale. Niente di nuovo, nessuno se ne stupisca: non più tardi di un anno fa erano stati gli Oasis a veder cancellate le proprie esibizioni. La colpa? Quella di Noel Gallagher di aver partecipato, dodici anni fa, ad un concerto pro-Tibet. Figurarsi allora se al principe della musica per i diritti civili, al portabandiera anni sessanta dei movimenti pacifisti, potesse mai essere concesso di esibirsi. Non stupiamocene dunque. Stiamo parlando della stessa Cina che nel 1989 diede ordine al proprio esercito di aprire il fuoco in Piazza Tiananmen contro studenti disarmati, provocando più di 1000 vittime; della Cina che cerca di cancellare la cultura Tibetana, tramite la repressione anche dei minimi diritti umani; della stessa Cina che, invece di prendere iniziative per controllare l'epidemia di SARS, aspettò più di sei mesi prima di informare l'Organizzazione Mondiale della Sanità, perché la priorità era preservare l'ordine pubblico. E venendo ad argomenti ancor più attuali, è la stessa Cina che, al vertice sul clima di Copenhagen, si è fermamente opposta alla proposta di tagliare le emissioni del 17% entro il 2020; e proprio questa stessa Cina infine è il paese in cui, anche per reati come evasione fiscale ed incasso di tangenti, viene eseguito il maggior numero di condanne a morte, ben 5000 nell'arco dell'anno (negli USA ne sono avvenute circa 1100 dal 1976 ad oggi). Si dirà, ma stiamo parlando di Bob Dylan, il menestrello che non ha mai alzato la voce per farsi sentire, anche in un periodo in cui tanti urlavano, e che è sempre riuscito a dimostrare la forza delle sue parole. Ebbene sì, e paradossalmente è proprio per questo che la Cina non vuole Bob Dylan. Perché dici Bob Dylan e capisci che è storia, è la colonna sonora che viene in mente se si pensa alla marcia su Washington, a Martin Luther King, è la melodia che attraversa quarant'anni di America, un po' come Forrest Gump in un certo senso. Un cantautore che ha scritto parole come “quanti anni possono gli uomini esistere, prima di essere lasciati liberi?” non è ancora adatto per questa Cina. O forse è tutto ciò che è liberale che non è adatto alla Cina. Ma non si dica che è l'atteggiamento della Cina ad essere inadatto, dopotutto la Cina è al primo posto per flusso degli investimenti esteri, e le agevolazioni fiscali previste per gli investitori stranieri sono tutt'oggi irrinunciabili. Possiamo solo sperare che qualcosa cambi, perché, come canta Bob Dylan, “è meglio che cominciate a nuotare, o affonderete come una pietra, perché i tempi stanno cambiando”.

martedì 6 aprile 2010

APOLOGIA DI QUINTILIANO


di Martina Nasato
Marco Fabio Quintiliano (35-96 d.C.) fu un oratore romano e maestro di retorica, vicino agli ambienti imperiali; molto apprezzato da Vespasiano, quest'ultimo gli affidò quella che si può considerare la prima cattedra pubblica. Dunque non un pericoloso eversivo nemico dell'impero. Eppure Quintiliano è l'autore di una frase che a distanza di venti secoli sta creando non pochi problemi: “Odiare i mascalzoni è cosa nobile”. Una grande verità, assolutamente inopinabile. Se non che, nel nostro Paese dei contrari, la verità è uno strumento pericoloso. Tanto più se a farsene portavoce è Daniele Luttazzi, comico satirico bandito da tutte le tv; soprattutto se lo fa nel corso di un programma di nota matrice eversiva, quale è stato “Rai per una notte”. Ma la verità è questa, non la si può negare. Allora la si nasconde, come è successo presso la sede di Sky sulla via Salaria a Roma, dove Berlusconi si è recato, accompagnato da una scorta piuttosto esagerata, per rilasciare un'intervista. Si noti che la suddetta intervista ha avuto un audience misero, appena lo 0,3%. Dunque, tutti gli uomini del presidente (tanti, troppi) hanno praticamente invaso il Palazzo di Sky. Immaginate, ora, un ufficio del reparto grafici dove su una enorme vetrata sta affisso un patetico foglio A4 su cui è stampata la celebre frase di Quintiliano. Bene, la scorta presidenziale, presa dal panico dopo aver letto quel foglio, ha scomodato addirittura la Digos, i cui agenti, dopo aver chiuso porte e finestre, così da non far vedere nulla all'esterno (cosa avevano da nascondere?), si sono messi all'opera: hanno prontamente strappato il foglietto, hanno trascinato fuori tutti i dipendenti di quell'ufficio per interrogarli, mentre un altro agente cercava prove sul computer incriminato. Operazione inutile, quest'ultima, perché i ragazzi responsabili del grave peccato, avevano già confessato ad un suo collega. I due giovani grafici vengono salvati da una situazione folle da un componente dell'ufficio legale della società, che impedisce che i ragazzi vengano portati in Questura, chissà poi con quale accusa assurda. Quanto successo è un fatto gravissimo e inaudito: sono state perseguite le idee, è stata messa sotto processo la cultura. Quei ragazzi avrebbero potuto attaccare qualsiasi cosa nel loro ufficio, dal volto di Che Guevara al calendario Pirelli, era un loro pieno diritto. E fa anche un po' sorridere che sia stata le stessa scorta presidenziale a vedere qualche collegamento tra il mascalzone di Quintiliano e Berlusconi.

Buonanotte all’Italia


di Claudia Giannini
Siamo un Paese in cui il primo governatore con la bandana verde al collo può permettersi di dire: «Lasceremo nei magazzini le Ru486». Siamo un Paese in cui l’altro governatore con il fazzoletto verde, stavolta in tasca, può aggiungere: « Mai in Veneto». E siamo anche il Paese del vecchietto vestito di bianco che condanna l’uccisione di bambini non ancora al mondo, mentre i suoi dipendenti abusano di quelli già nati.
È così che si presenta l’Italia a più di una settimana trascorsa dalle elezioni regionali. Divisa e sconfitta. Ma forse non si può parlare di sconfitta, perché l’Italia non ha realmente combattuto. Stavolta se la sono vista tra loro i candidati, come dimostra anche il calo di affluenza alle urne che ha colpito trasversalmente la penisola.
Ed ora, come nel 1861, al nord ci sono i re. Non i Savoia però, i Leghisti. Al centro c’è il Papa, che non ha più uno Stato vasto, ma il potere dei dogmi, con il quale ha sconfitto Emma Bonino. E il sud affronta gli stessi problemi di disoccupazione e disagio economico di sempre.
Un’Italia che non vuole crescere, non vuole cambiare. Che sta in Europa, ma ogni tanto se ne dimentica. Che vota la Lega perché ha paura dello straniero. Che non vota la sinistra perché non la trova più. Che si chiude nel suo orticello individualista e lavora con la testa china. Che si fa togliere i diritti invece di difenderli.
Se Luca Zaia, Roberto Cota, Benedetto XVI rappresentano l’ideale politico, governativo o spirituale dell’italiano medio, beh, allora non biasimo più tutti coloro che decidono di lasciarla quest’Italia e di farsi una vita altrove.
Resta amarezza dopo queste elezioni. Non tanto per i risultati in sé, quanto per i voti degli italiani che li hanno resi possibili. Non è più sufficiente incriminare solo la mancanza di informazione, ora che con la rete si può arrivare ovunque. Ciò che manca, a mio avviso, è una coscienza critica. E questa si sviluppa col confronto e il dibattito, ricchezza che gli italiani sembrano aver dimenticato, troppo impegnati a guardare il Grande Fratello.

sabato 3 aprile 2010

RIFLESSIONE SUL “DISCORSO TIPICO DELLO SCHIAVO”


di Martina Nasato
Fino a qualche giorno fa non avevo la più pallida idea di chi fosse Silvano Agosti. Poi, grazie ad un amico, mi sono imbattuta in uno dei ragionamenti più brillanti, dirompenti, pulsanti di vita che io abbia mai avuto il piacere di ascoltare: “il discorso tipico dello schiavo”. Silvano Agosti, ho appreso in seguito, è un regista indipendente, nonché sceneggiatore, che ha collaborato con altri cineasti del calibro di Bellocchio, Petraglia e Rulli: insomma, un personaggio di tutto rispetto nell'ambiente. Eppure ad aprire la mia mente è stato un video di quattro minuti e mezzo su Youtube. “Il discorso tipico dello schiavo” è molto più di un'analisi sociologica, è piuttosto una diagnosi della società, inequivocabilmente malata. È lo schiaffo, inferto da una voce di velluto, all'infermo che abbraccia la sua malattia, che la difende. “Uno degli aspetti più micidiali dell'attuale cultura, è di far credere che sia l'unica cultura, invece è semplicemente la peggiore”. Inizia così, impetuoso e sfacciato, Silvano Agosti, che prosegue sciorinando tutte le contraddizioni del capitalismo, dall'alienazione causata dal lavoro (“Come si fa a rubare la vita agli esseri umani in cambio del cibo, del letto, della macchinetta...?”) alla morte di ogni ideale (“quello che è orrendo in questa cultura è che "leccare il pavimento" è diventata addirittura una aspirazione”). “Come si fa in un giorno a costruire la vita?” si chiede il regista: perché, in effetti, ogni settimana all'essere umano resta un solo giorno da dedicare alla propria esistenza, essendo gli altri immolati sull'altare della produttività.
Che senso ha la vita di un uomo se può essere comprata con uno stipendio mensile, nemmeno molto alto? “Non capisco perché un quadro di Van Gogh debba valere 77 miliardi e un essere umano due milioni e mezzo al mese (di lire, n.d.r.), bene che vada”. Soprattutto se pensiamo che “con le nuove tecnologie, i profitti sono aumentati di almeno 100 volte... e allora il lavoro doveva diminuire almeno 10 volte!”. E invece no. Le vite sono come risucchiate da un sistema frenetico e totalizzante, che nasconde le alternative, che comprime ed omologa la massa. Un sistema bugiardo, che non arricchisce, anzi impoverisce: “Tutto l'Occidente vive in un'area di beneficio perché sta rubando 8/10 dei beni del resto del Mondo. Quindi non è che noi stiamo vivendo in un regime politico capace di darci la televisione, la macchina...no. E' un sistema politico che sa rubare 8/10 a 3/4 di Mondo e da un po' di benessere a 1/4 di Mondo, che siamo noi...”. Ed è un sistema vischioso, al quale non riusciamo a ribellarci: “È mostruoso che il tipo debba andare a lavorare 8 ore al giorno e debba essere pure grato a chi gli fa leccare il pavimento, capisci?”. No, l'uomo questo non lo capisce più, e infatti risponde che ORMAI LA SITUAZIONE È IRREVERSIBILE. Eccolo, il discorso tipico dello schiavo, di chi difende l'oppressore: “Il vero schiavo difende il padrone, mica lo combatte. Perché lo schiavo non è tanto quello che ha la catena al piede quanto quello che non è più capace di immaginarsi la libertà.” Forse non siamo ancora in trappola, forse esiste una via d'uscita, una finestra che ci permetta di fuggire da questa società cancerogena. Forse. “Intanto uno non deve mettere i fiorellini alla finestra della cella della quale è prigioniero, perché sennò anche se un giorno la porta sarà aperta lui non vorrà uscire”.