martedì 23 febbraio 2010

La prima cosa bella


di Claudia Giannini
“La prima cosa bella, che ho avuto dalla vita, è il tuo sorriso giovane, sei tu…” Cantava così Nicola Di Bari nel 1970, in un’Italia vecchia ma estremamente nuova. E’ questa l’Italia che ritroviamo nel film di Virzì, quarant’anni lontana da noi, e però così attuale. Forse la sensazione è data dall’alternarsi dei piani temporali, eppure lo stacco è sanato elegantemente dal filo delle emozioni, che non cambiano negli anni.
C’è una mamma “troppo importante” in questo film, Anna, interpretata da una straordinaria Stefania Sandrelli, intorno alla quale girano le vite dei suoi figli, Claudia Pandolfi e Valerio Mastrandrea. Tutto avviene a Livorno. Ma con ‘tutto’ non intendo una storia, perché questo film non narra una storia. Narra una vita.
La vita di una donna, che potrebbe essere la vita di ogni donna negli anni settanta. Una lacerazione profonda segna Anna, che tra obblighi sociali e ambiziose aspirazioni, riversa il suo profondo amore sui suoi figli. Per loro supera ogni difficoltà sempre con il sorriso e col suo carattere forte, ma esuberante. Però da una madre così si può uscire sconfitti, se non si scappa, non si corre lontano. Eppure la distanza non taglia i legami, che tornano prepotentemente nei momenti più difficili della vita.
“La prima cosa bella” non è un film triste. È un film reale. Perché è solo nella realtà che trovi il riso mescolato al pianto. E reali sono anche i protagonisti, reali persino nell’infanzia grazie a due straordinari piccoli interpreti.
Virzì si riconferma grande indagatore delle relazioni interpersonali, soprattutto familiari. Dopo aver narrato con disincantata ironia il dramma sociale di “Tutta la vita davanti”, torna a mostrarci un pezzo di vita. Un rapporto di maternità sospeso sul filo della storia italiana.
Nulla da aggiungere. Buona visione.

martedì 16 febbraio 2010

Ciclone Emma


di Riccardo Di Santo
Sabato 13 Febbraio 2010, ore dieci meno un quarto, sono in macchina correndo verso il teatro Cafaro. Un messaggio del mio amico Andrea mi ha avvisato la notte prima di una presenza eccezionale: chi sarà mai? Il premo Nobel della Pace? No, è Emma Bonino candidata per il centrosinistra alle regionali. Strano, quando è venuta la Polverini accompagnata da Gasparri (il che è tutto dire) lo sapevano cani e porci, mentre di questo, tranne interessati, pochi ne erano a conoscenza. Sarà colpa mia. Giunto al teatro a piedi dopo un parcheggio (rigorosamente al di fuori della griglia delle strisce blu), e un caffè ristoratore, prendo posto e aspetto insieme ai miei colleghi del giornale: dieci,venti,trenta minuti. Alla fine lo scroscio di applausi segnala l’ingresso della “festeggiata” nell’aula. Capisco il rispetto per la figura e il calore della gente, ma diamine aspettate che pronunci parola prima di osannarla salvatrice del popolo Latinense! L’introduzione di una giovane giornalista apre il discorso, ma non è la Bonino ad alzarsi e avviarsi verso i microfoni, è Sesa Amici. Discorso classico, monotono che segue il ritmo dei suoi pugni che battono vicino ai microfoni: Latina, Provincia, capoluogo, uniti si vince, farmaceutico, piccole imprese, piccole imprenditrici. Tante parole già sentite, ma quando accenna alle grandi battaglie del Pd condotte mi deve sorgere un vuoto di memoria: non ricordo che ne abbia vinta nessuna,o almeno mi pare. Scroscio di applausi, nuova parentesi della giovane giornalista che viene gentilmente allontata dagli applausi alla “minaccia” di narrare l’enorme biografia della candidata, e infine eccola: Emma si alza, si avvicina ai microfoni e inizia. Per tutti quelli che erano presenti la differenza fra le due oratrici è un canyon, la Bonino parte dal nazionale e arriva al locale in ogni passaggio rendendo chiaro il discorso e intervallandolo con osservazioni personali (e forse spontanee). Diavolo questa donna è un genio, devo ammetterlo: sanità, assistenza sociale, turismo, piccole e medie imprese, per ognuno di questi temi pare che abiti qui da sempre come noi. Non mancano una o due frecciatine alla principale concorrente in corsa per la poltrona di presidente della regione, tuttavia senza mai nominarla direttamente, in pieno stile politically correct, a differenza di quanto ha fatto quest’ultima, atteggiandosi a santa protettrice della famiglia e dipingendo la Bonino come il neo satana incarnatosi (e canditatosi) per portare la distruzione nel Lazio. Finito il monologo scoppiano gli applausi, tra cui quello del sottoscritto.

Il Cambellotti perduto


di Matteo Napolitano
Se provassimo a fare un sondaggio chiedendo agli abitanti di Latina in quanti hanno, almeno una volta, visitato il museo Cambellotti, ci accorgeremmo che il risultato sarebbe a dir poco sconfortante. Il museo è situato in piazza San Marco all’interno dell’ex Opera Balilla e nonostante la collocazione è costantemente vuoto, a scanso di qualche concerto o evento benefico al suo interno. La mostra che vi risiede in modo permanente racconta uno spaccato di quella che è stata la realtà dei luoghi in cui passiamo ogni giornata vista dagli occhi dell’artista che dà il nome al museo stesso. Duilio Cambellotti infatti è Latinense d’adozione poiché, romano, si occupò prima e durante il periodo fascista della rivalorizzazione del nostro territorio fondando, ad esempio, le prime scuole per contadini nelle tanto insidiose paludi laziali (1905) e portando in giro per l’Italia, anche al cospetto di artisti del calibro di Balla, le illustrazioni e i lavori riguardanti il territorio Pontino e i territori ad esso limitrofi. All’interno del museo si possono ritrovare, anche se con sapore sciapo dovuto a ovvi problemi di mancata valorizzazione da parte del Comune, le radici delle nostre terre e di coloro che hanno fatto di Latina una città, un capoluogo, partendo da una realtà fondamentalmente rurale e intrisa di melma e malattie. Il museo “Cambellotti” è aperto tutti i giorni e non è previsto alcun biglietto per l’entrata quindi, provare non costa niente.

martedì 9 febbraio 2010

Il mito del passato


di Stefano Pietrosanti
Oggi mi è capitato di ascoltare il Ministro Alfano impegnato nel suo infaticabile perorare l’immunità parlamentare come uno strumento di civiltà che dovrebbe tendere a dividere meglio e con comuni vantaggi il potere legislativo, esecutivo e giudiziario, ergendosi a difensore della Carta Costituzionale come Costituente l’ha fatta. Non mi perdo in inutili lungaggini sul clima storico dell’epoca, sul rischio di giudici e funzionari nominati dal regime e ancora in carica e sulle vicissitudini dell’attuale governo, ma non posso trattenermi dal dire che – ora come ora – tanto varrebbe buttarla a mare questa Carta, simulacro del niente dietro. E’ una provocazione, ovviamente, ma voglio che qualcuno si soffermi a riflettere su quanto profondo e maleodorante sia il fallimento di quei grandi uomini sempre osannati che hanno fondato lo stato dopo la lotta partigiana. Coraggiosi, e colti, e condivisibili, ma che maestri tremendi devono essere stati, se questo è il risultato. L’Italia, nei suoi momenti peggiori, è stata sempre un paese provinciale e connaturato a questo mito del passato. Dopo l’unificazione, due generazioni irrisolte passarono il tempo a sospirare di non aver potuto partecipare al ’48, mentre quelli che l’avevano vissuto da protagonisti lo avevano in buona parte rinnegato nei fatti, veglianti lagnosi sulla salma fredda del sogno mazziniano. Dopo la guerra, mentre la generazione di Vittorio Veneto si leccava le ferite, bande di giovinetti cresciuti nel mito dell’Ardito col coltello in bocca appoggiavano entusiaste l’uomo della provvidenza, anche scappando dai collegi per partecipare alla marcia sul niente, giusto per sentirsi un po’ truppe irredentiste anche loro. Tacendo della bella ed evidentemente effimera parentesi della resistenza e della costituente, giovani cresciuti col mito della rivoluzione inconclusa si univano a giovani col sogno del nuovo per fare un grande – a volte entusiasmante e commovente – pasticcio di parole in libertà, così dopo di loro altre due/tre generazioni sarebbero vissute col mito del ’68, nella speranza disperata di emularlo e riviverlo, mentre gli ex protagonisti avrebbero fatto i veglianti lagnosi sulla salma fredda del sogno rivoluzionario. Forse è il caso di piantarla. Se non ci piace l’oggi, vuol dire che lo ieri non era questo gran che, altrimenti avrebbe prodotto frutti forti e non marci. Se vogliamo ripulirci, rifondarci, l’unica cosa che ci rimane è ripensare la realtà e per questo serve calma, studio, sforzo, oggettività. Dobbiamo ricercare nel passato, con sano scetticismo, i geni recessivi che non hanno visto la luce, adattarli all’oggi, pensare nuove idee; come intuì ai suoi tempi Gobetti, dobbiamo educare noi stessi, evitando miti, essendo sospettosi davanti ad ogni culto, ad ogni verità rivelata e allo stesso tempo imparando quella cosa rara che è la fedeltà a se stessi e alle proprie parole. Sicuramente è meno divertente del gridare alla rivoluzione, alla Grande Riforma, alla rifondazione del passato mitico e giusto, ma sull’altare delle bugie generose troppi buoni futuri sono stati sacrificati.

Il quartiere dimenticato


di Andrea Passamonti
Il turista del Nord, fedele al suo immancabile navigatore, una volta superato Borgo Piave penserebbe di essere arrivato a Latina. Eppure non sarebbe strano se, dirigendosi verso Piazza del Popolo, il nostro pensasse di aver sbagliato non solo città, ma anche nazione.
Era il 28 Ottobre del 2008 quando una bombola del gas dilaniò un edificio del Quartiere Nicolosi, una delle zone di più alto rilievo storico della nostra città.
Oggi, a più di un anno di distanza, lo spettacolo non è cambiato e il lotto tra via Grassi e via Emanuele Filiberto ricorda più Beirut dopo un bombardamento che il centro storico di una città italiana.
Eppure il quartiere popolare meriterebbe tutt’altra attenzione. Non a caso fu la stessa amministrazione comunale a rivalutare – solo sulla carta s’intende – l’intera zona, tanto da inserirla in un piano di rilancio.
La proposta dei progettisti (presentata alla cittadinanza il 12 Marzo 2004 presso la Scuola Media G. Cena) prevedeva tra le altre cose un “asse pedonale e ciclabile da Piazza Mentana al canale delle Acque Medie” e una “nuova organizzazione e riqualificazione dei cortili del quartiere Nicolosi”, per non parlare della modifica alla viabilità di Piazza Mentana, con tanto di installazione di un chiosco e partenza del percorso pedonale. E per concludere l’opera non manca che la ricollocazione del mercatino: “Il Mercatino sarà spostato in una nuova piazza da realizzare tra le due scuole e il campo sportivo, questa piazza attraversata dalla pista ciclabile accoglierà anche uno spazio con giochi per i bambini”.
Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo l’inconcludenza. Sta di fatto che tra gli interventi previsti nel Contratto di Quartiere “Nicolosi - Villaggio Trieste”, siglato con il Ministero delle Infrastrutture, il rilancio del Nicolosi non c’è più. Abbandonato. Rinnegato. Non Pervenuto.
Con buona pace del “recupero degli edifici storici” tanto propagandato dal Sindaco.
Il resto è storia di alcuni mesi fa: la bombola esplode e l’edificio diventa la riproduzione di un film di guerra. Forse il turista del Nord penserà di essere ancora a Cinecittà.
Ci si potrebbe chiedere il motivo di questo stato di abbandono che include anche marciapiedi sconnessi e lampioni pubblici non funzionanti (con tanto di lamentele dei residenti alla concessionaria del servizio Enel Sole rimaste ovviamente senza soluzione).
La risposta potrebbe essere la natura stessa del quartiere: ottant’anni fa abitato da immigrati italiani, oggi soprattutto da quelli stranieri. Con la differenza che questi ultimi non hanno diritto di voto, con conseguenze negative per entrambi.
Ma questa è un’amministrazione che non risolve, rattoppa. Lo abbiamo visto un anno fa con il tendone “Benvenuti Alpini” che nascondeva lo scempio.
A proposito, tra due anni arrivano i bersaglieri…

martedì 2 febbraio 2010

Zak il marinaio


Verrebbe da dire ‘promesse da marinai’. Peccato che in gioco non ci sono uomini che vanno di porto in porto, ma il sindaco di Latina. Nel mese di Novembre, come ricorderete, l’Agronauta aveva portato avanti una petizione contro il nuovo piano sosta, al fine di ristabilire alcuni parcheggi gratuiti. Fortunatamente, grazie anche ad altre iniziative portate avanti da associazioni e partiti politici, alcuni spazi destinati alla sosta a pagamento sono stati riconvertiti, come ad esempio il P.zzale Prampolini.
Però, nonostante l’apparente marcia indietro del Comune, la situazione non sembra cambiata più di tanto. Entrando nello specifico, noi dell’Agronauta il 1 Dicembre 2009 avevamo incontrato il sindaco Zaccheo per la consegna delle 2600 firme raccolte e in quella sede si era mostrato piuttosto disponibile. Così disponibile, da arrivare a fare delle promesse, in particolare a vantaggio degli studenti. Infatti aveva garantito dieci o quindici posti gratuiti nel parcheggio delle ex autolinee destinati agli utenti della Biblioteca Comunale. Per dare maggior credito a questa promessa, aveva contattato in nostra presenza la Commissione viabilità che proprio in quel momento si stava riunendo per rivedere il Piano Sosta.
Abbiamo atteso due mesi, sperando che un briciolo di rispetto nei confronti dei cittadini animasse le istituzioni, ma abbiamo atteso invano.
Alle belle parole non sono seguiti i fatti. La voce dei firmatari è rimasta inascoltata e l’impegno delle associazioni che si sono mosse è caduto nel dimenticatoio.
I cittadini continueranno a pagare, o a parcheggiare in doppia fila. E la speranza di ristabilire l’ordine in centro si è dimostrata vana, mentre il provvedimento ha rivelato la sua vera natura: gonfiare le casse comunali e quelle del Consorzio Urbania. Per di più il Comune non si mostra affatto preoccupato visto che il piano sosta non è più la notizia del giorno, sostituita dalla criminalità locale. Si spera solo che alle prossime elezioni ai cittadini tornino in mente le false promesse, fatte non da marinai, ma da sindaci e consiglieri

Luca Barbareschi contro Spinoza


di Martina Nasato
Luca Barbareschi è un personaggio che si divide fra l'attività politica, il ruolo di attore e quello di regista, in quanto, come ha recentemente affermato lui stesso a un cronista de Il Fatto Quotidiano, lo stipendio di parlamentare (23 mila euro lordi mensili – benefit esclusi) non gli consentirebbe di andare avanti. “Spinoza”, invece è un famosissimo ed esilarante blog, che propone satira acuta e tagliente ideata da persone comuni, anonime. Cosa accomuna i due soggetti? Il fatto che, nella prima puntata di “Barbareschi Sciok” (programma in onda il venerdì sera su La7), il deputato Pdl abbia riportato delle battute dal suddetto blog senza citare la fonte. Com'era prevedibile, la cosa non è passata inosservata. Ma Barbareschi commenta sarcastico: “È buffo che da internet mi si rinfacci il diritto d'autore”. E invece così buffo non è, se si considera il fatto che, in veste di parlamentare, fu proprio Barbareschi a proporre leggi contro la pirateria digitale a tutela dei diritti d'autore. Le scuse addotte dall'onorevole/presentatore sono state ancora più fastidiose dell'atto in sé: “Questi signori non hanno capito nulla: il nostro programma è crossmediale, punta a mettere insieme mezzi diversi […]. Io porto la rete dentro la televisione generalista; con un guadagno, è ovvio: certo, io vengo pagato”. Mi sembra quasi superfluo far notare che un programma crossmediale citerebbe le fonti. Inoltre, è inaudito che un deputato venga pagato profumatamente per condurre uno show, nel quale, tra l'altro, la maggior parte di battute efficaci e video grotteschi è presa da internet. A schierarsi a fianco degli autori di Spinoza.it sono stati anche alcuni social-network, primo fra tutti Twitter, i cui utenti hanno creato veri e propri tormentoni ridicolizzando un'ormai nota frase di Barbareschi, “internet l'ho inventato io”. Nella seconda puntata, venerdì 29 Gennaio, il conduttore si è guardato bene dal continuare ad utilizzare le battute di Spinoza.it, e così, evidentemente a corto di idee, ha utilizzato gli hashtag pubblicati contro di lui su Twitter (i suddetti tormentoni) per creare delle contro-battute: risultato pietoso. Infine, la crossmedialità del programma si è rivelata un'arma a doppio taglio: già nella seconda puntata Barbareschi ha ricevuto, in diretta, una valanga di insulti via sms e via web. Ma, si sa, nella tv generalista tutto fa audience.