di Diletta Di Paola
È proprio dal canto mitico di una Sirena che nacque il primo nucleo di Napoli ed è da lei che prese inizialmente il nome di Parthenope.
La leggenda amata dai partenopei narra della delusione amorosa di questa donna-uccello che, non essendo riuscita ad ammaliare con il suo canto Ulisse di ritorno da Troia , decise di gettarsi nelle acque di quello che poi sarebbe diventato il Golfo di Napoli.
Si insinua nell’immaginario collettivo il canto di Parthenope e forse proprio dalla sua gloriosa leggenda nasce l’animo partenopeo della festa, del canto, ma anche della sofferenza.
Questa costante malinconica e “battagliera” si riscontra ovunque e sempre a partire dalla maschera di Pulcinella.
Naso adunco come quello di un gallo, sembra infatti abbia tratto origine da un personaggio proposto da Orazio nelle sue Satire: Cicirrus, il cui nome significherebbe appunto Galletto. La grandiosità e genialità di questa maschera sta nel farsi metafora e portavoce dell’anima del popolo napoletano.
Ai napoletani piace cantare con Pulcinella e del resto a Napoli la vita ha sempre fatto rima con la canzone.
La prima ad esser cantata in dialetto è “Jesce Sole” che risale al 1200 della quale, però, non si conosce l’autore.
Come scrive Luca Torre nel libro “Canzoni classiche napoletane”: “La canzone napoletana è certamente la più cantata al mondo, anche se proporzionalmente al numero di esecuzioni, la più povera di diritti d’autore”.
Certo, perché essendo motivo popolare passa di bocca in bocca “Perciò chi nasce din’t a ‘sta città passa cantanno tutt’ ’a giuventù (…). E basta sulamente ‘nu mandulino (…) ‘nu core ardente ca, ride o chiagne, vò sempre cantà!”. Così le parole di “Comme se canta a Napule”, canzone scritta nel 1911 da E. A. Mario (Nome d’arte di Giovanni Ermete Gaeta).
Se si pensa anche solo al caffè viene in mente un ritornello che fa : “Ah, che bellu cafè, sulo a Napule 'o sanno fa'…”
Nel Quattrocento nascono i primi generi musicali: la farsa, la frottola, la tammurriata… Ecco che ad affiancarli compaiono i primi strumenti: il putipù, il tammuriello, le castagnelle e ovviamente il famoso mandolino con cui ogni italiano (noiosamente) all’estero viene accostato alla pizza e a qualcos’altro che (tristemente) fa parte della sua cultura.
Dalla musica popolare genuina, si passa a quella “accademica”, dotta e volendo colta.
Nascono a Napoli intorno al XVI secolo i primi conservatori originariamente adibiti ad orfanotrofi che avevano come compito quello di “conservare” ed educare gli orfani di strada alla musica. Quattro erano quelli fondamentali che poi nel 1806 si unificarono in un’unica struttura, il Conservatorio di S.Pietro a Majella. Ed è stupendo bere un bollente caffè nelle vie adiacenti ad esso e sentire voci e suoni provenienti dalle sue aule. Sono gelosi e si vantano delle loro canzoni, i napoletani!
Recentemente è nato un nuovo genere musicale, quello “neomelodico” di cui fa parte (solo per fare un esempio) Gigi D’Alessio. A quanto pare ogni rione ha un proprio idolo.
La forza di questo effettivo fenomeno culturale sta nella enorme risonanza che ha in termini di successo mediatico locale.
Un’altra importante esponente della musica contemporanea napoletana è senza dubbio Teresa De Sio. Napoletana doc, cresciuta tra la musicalità del dialetto e le storie di Napoli, sostiene che
“il folk è il rock del popolo. Con il folk si impara a rispettare gli uomini e le donne del nostro mondo, a riconoscerne il passato e grazie a quello guardare al futuro”. Questo uno stralcio di una sua intervista.
Ed è così che bisognerebbe continuare a cantare e a pensare la musica.
E così deve continuare a cantare la bella Sirena dei soli scottanti del cantare vitale e genuino.
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