martedì 8 febbraio 2011

La rivoluzione, no i social network


di Alessandro Lanzi

La stampa internazionale da settimane segue con attenzione la rivolta esplosa in Tunisia, Algeria ed Egitto, che rievoca per noi im-potenti occidentali un passato quasi del tutto dimenticato. Pur essendo solidale con la causa della rivolta, da cui spero scaturisca una vera rivoluzione, non posso fare a meno di notare un aspetto singolare, che i giornali ripropongono di continuo e che in Inghilterra e in America è diventato oggetto di dibattito: la rivoluzione avvenuta grazie ai social network. Sono d’accordo sul fatto che i mezzi di comunicazione giochino un ruolo fondamentale nella fase dell’organizzazione di un qualunque evento che raccolga più persone, soprattutto se provenienti da luoghi distanti tra loro, ma da questo ad ammettere, come fa qualcuno, che la rivolta stia avvenendo grazie ad un mezzo e non per un fine è veramente assurdo. Tutti conosciamo la rivoluzione francese o quella americana o quella messicana, avvenute in epoche in cui la gente era per larga parte analfabeta, eppure le rivoluzioni sono state fatte lo stesso. Perché? Perché alla base della rivoluzione ci sono un forte sentimento di malessere e precarie condizioni di vita del popolo, subordinato al potere che lo tiene in gabbia, che si traducono nella volontà e poi nell’azione diretta a distruggere la gabbia, per rifondare un sistema nuovo, che risponde alle esigenze del popolo stesso. Questo almeno in teoria. Inoltre bisogna fare i conti con alcune statistiche: in Egitto il 21,2% della popolazione accede ad internet, in Tunisia il 34% e in Algeria il 13%. Questo dimostra come in fondo non sia stato così determinante l’impiego dei social network per far scaturire la rivolta. Malcolm Gladwell, dalle colonne del “The New Yorker”, mostra inoltre altri limiti legati alla rivolta che impiega i social network: 1- tutti sono “amici” e non si crea un’organizzazione gerarchica, che si assuma la responsabilità di alcune decisioni 2- su internet nessuno compie sacrifici necessari 3- i social network aumentano la partecipazione ma diminuiscono la motivazione 4- spesso coloro che si occupano della rivolta su internet non si trovano nel luogo in cui avviene 5- non si creano strategie. A queste io aggiungerei c’è il totale controllo da parte del potere. Basta andare sul sito della “Repubblica” alla sezione esteri, per vedere che in Algeria, Tunisia, Egitto e in Cina le piattaforme Twitter e Facebook sono inaccessibili ed a Cuba e in Siria funzionano a singhiozzi. Questo significa che la rivolta è già finita? No, perché la gente ha fame di libertà, di giustizia, di uguaglianza ed anche di speranza. Queste sono le armi della rivoluzione. Intanto in Cina il governo si adopera per far si che, cliccando su un motore di ricerca la parola “Egitto” il risultato sia “about:blank”. Chissà se pure in Italia il Governo si sta adoperando al riguardo. A prima vista pare di si: Berlusconi per esprimere la sua solidarietà a Mubarak “sta vicino alla nipote”.

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