martedì 15 marzo 2011

Estetica e Repubblica


di Stefano Pietrosanti

Partiamo dalla senso etimologico della parola estetica: la capacità di sentire. Sta a dire, l'estetica è il primo canale per entrare in comunicazione col contesto in cui si è immersi, per influire su questo e per rispondere alla pressioni che questo ci trasmette. Forzando un poco, si potrebbe quindi dire che ordinamenti come quelli democratici, che vivono del dialogo tra componenti formalizzato dalla legge, sono ordinamenti fondati sull'estetica.

In un altro senso, più ristretto, la parola estetica esprime il concetto di capacità di sentire il bello. Assume quindi una dimensione relativa, perché questo sentimento è sottoposto all'elaborazione e all'accettazione di una serie di regole di massima cui attenersi. Anche in questo senso, si può facilmente notare la dimensione politica del concetto: di estetica sono fatti i confini di ogni ordinamento sociale, poiché gli spazi politici si delimitano a forza di simboli, ritualità, miti condivisi e richiami a sensazioni che formano il sentire comune di coloro che fanno parte di qualsiasi comunità civile.

Ora, si può dire che l'Italia, dagli anni sessanta fino agli anni ottanta, ha vissuto un periodo anestetico, un periodo che l'ha privata della sua capacità di sentire. Senza particolari progetti di vita comune, la sua vita è stata in buona parte il fruire del benessere garantito dalla crescita economica modulata da un generoso stato sociale e dal soffocante scudo americano che bloccava le pressioni dell'autocrazia sovietica ad est. Personalmente non amo le generalizzazioni, appunto per questo mi occupo d'economia, una scienza che funziona bene quando e se riesce a distinguere cause, concause e motivazioni nascoste di un fenomeno; però penso che un linguaggio di simboli sia più consono a questo contesto. E quale miglior simbolo vivente di quel periodo se non l'onorevole Andreotti?

Al netto di tutti i più cupi sospetti, la principale colpa che gli ascrivo è essere stato esattamente questo: un monumento all'anestesia e allo stesso tempo l'incarnazione della grande anestesia nazionale. Dal vestire bigio al motto "meglio tirare a campare che tirare le cuoia", la rappresentazione scenica di un mondo appiattito tra il non detto mostruoso della bomba, l'impotenza dell'esser presi tra i due blocchi, la tacita considerazione della democrazia come un compromesso per dare una veste accettabile alla gestione del potere, con il vantaggio di smorzare i toni di qualsiasi scontro.

A forza di passettini e frasi velenose dette a voce tremante, tutto questo ha sterilizzato in culla la Repubblica, lasciandone la vuota scorza a onta degli sforzi di un Pertini e delle altre mosche bianche che hanno vissuto la democrazia liberale e repubblicana come ciò che effettivamente è: uno dei tanti ideali rivoluzionari, a mio parere il più nobile.

Dato che gli spazi vuoti non rimangono a lungo liberi in natura, lo spazio aperto (anestetizzato) del sentire è stato presto occupato dalla cricca berlusconiana e da ciò che questa rappresentava a livello di costume. Non voglio sdilinquirmi nella critica di quest'estetica ormai nemmeno più tanto nuova, mi va solo di trasporre su carta un concetto che maturo da tempo: io mi considero un liberale di sinistra, quindi progressista, ma sono convinto che il mio fastidio per l'onorevole Berlusconi abbia una radice tutta conservatrice. Conservatrice di cosa? Dell'ideale rivoluzionario repubblicano e dell'estetica pubblica che questo si porta dietro. Per questo sono convinto di due cose: in primo luogo, che la mia opposizione all'andazzo delle cose sia pre-politica e trans-politica, più che altro un'opposizione estetica; in secondo luogo, che si possa tranquillamente dire, con un bon mot, che Berlusconi è la continuazione di Andreotti con altri mezzi.

1 commento:

  1. Dal numero di Marzo del "To Skeptron" mensile culturale pubblicato nell'Università di Milano

    Stefano Pietrosanti

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