venerdì 21 ottobre 2011

Anime in Penan


Diletta Di Paola

Alberi e secoli che cadono giù sollevando e distruggendo la terra. Noi uomini “eruditi” occidentali e “orient-occidentali” abbiamo perso completamente il senso dei piedi per terra, di sentire pulsare la ricchezza di ciò che ci nutre. 
La terra Madre e Balia.
A partire dal valore che diamo alla casa che è divenuta una casa/cosa.
Una cosa a cui si dà un valore in base al mercato.
Non è più il nostro rifugio.
Ci siamo allontanati totalmente dalla vita naturale, terrena.
Ci rinchiudiamo in automobili che tossiscono gas nocivi, ci arrampichiamo in megamostrindustriali che creano nuvole nere, ci rifacciamo gli occhi davanti schermi di immagini finte e urliamo rumore verso il nostro prossimo per futili motivi.
Tutto questo lerciume si attacca alla nostra mentalità.
Ed è normale quindi rimanere impressionati, provare rancore verso la nostra cultura della rabbia consumista, quando capita di vedere attraverso la televisione un documentario su un popolo che di tutto questo non sa niente.
Beati! Ho pensato.
Nello stato del Sarawak, situato nella parte nord-occidentale dell’isola del Borneo, viveva indisturbato il popolo dei Penan.
La loro vita dipende completamente dalle risorse che gli vengono offerte dalla loro terra; cacciatori e raccoglitori di sago (un amido che si ottiene dal midollo di palme di diverse specie), di rattan (ottenuto dalla corteccia delle palme) che intrecciano con impressionante maestria per ottenere cesti e altri meravigliosi manufatti.
All’inizio degli anni ’70 arrivarono nel Sarawak le grandi ditte di legname e olio di palma con le quali il governo locale simpatizzò subito.
Da allora i Penan non conoscono più né la pace né la loro amata terra.
Il loro attaccamento e la loro dipendenza dall’acqua, dal cuore delle piante, dagli animali che cacciano con le loro cerbottane munite di frecce, è talmente viscerale, che un cambiamento anche minimo delle loro abitudini, porterebbe, anzi, sta già portando ad una forte crisi della loro identità culturale.
Nel 2008 come se non bastasse, in Internet venne reso noto il piano da parte di una grande ditta cinese la “Sarawak China Three Gorges Project Corporation”, di cui il nome è tutto un programma (come si suol dire), in cui si progettava la costruzione di una serie di dighe idroelettriche proprio sulle terre ancestrali dei poveri Penan, sommergendo anche il Parco Nazionale Mulu che tra l’atro è patrimonio UNESCO.
Precisamente dieci anni prima, quindi nel 1998, la Banca Mondiale insieme all’ Unione Internazionale per la Conservazione della Natura, diedero vita alla Commissione Mondiale sulle Dighe.
La politica portata avanti dalla Banca Mondiale negli anni ’90 era molto più restrittiva nei confronti dei progetti proposti dalle grandi ditte delle dighe.
Nel 2003 come se se ne fosse totalmente dimenticata, la sua politica cambia radicalmente, anzi incentiva questi progetti .
Il problema sul quale la maggior parte di queste grandi ditte giocano, è che per impedire la costruzione o la demolizione di una intera foresta è necessario un documento che attesti legalmente la proprietà di quelle terre da parte della popolazione che vi si trova.
Molto spesso, come nel caso dei Penan, questo documento non è in loro possesso, in quanto la maggior parte dei governi locali neanche li riconosce come popolazione occupante il loro stesso territorio.
Un altro gioco che fa divertire molto questi grandi figli dello “sviluppo” è che, prima di andare a costruire le loro “scenografiche” dighe, sono obbligati a consultare le popolazioni occupanti, ma (guarda il caso) c’è un grosso problema di comunicazione, in quanto queste restando fin dalla nascita leali alle loro tradizioni, non sanno parlare nessuna lingua all’infuori della loro.
Quindi il consulto diventa solo una presa in giro per sentirsi la coscienza pulita e poter dire “Eh ma io l’ho consultato…è lui che non mi ha capito e quindi ora non ha il diritto di lamentarsi”.
Sono proprio questi i motivi che spingono sempre più le grandi ditte a sfruttare le terre in cui vi si trovano queste minoranze etniche troppo poco tutelate. "Non siamo contro la diga, siamo contro la disintegrazione delle nostre comunità".
Questo è l’animo dei Penan, che da un giorno all’altro si sono ritrovati i rumori della città a occupare e devastare le loro orecchie abituate al silenzio e alla pace dei loro ritmi naturali.
Un altro grave problema è quello delle malattie che porterebbero i bacini delle dighe; Infatti l’acqua e la vegetazione che vi ristagna sono un perfetto habitat per le zanzare che portano la malaria.
La creazione di un bacino, inoltre, comporta un’alterazione del flusso di acqua e quindi di conseguenza anche dei cicli naturali, influenzando così anche la pesca in maniera assolutamente negativa.
Gli usi e i costumi dei Penan vengono così scombussolati e proprio per la mancanza di pesce, frutta o altre risorse che prima vi erano in abbondanza, molto spesso sono costretti a rinunciare alla celebrazione dei loro riti.
Continuano a lottare per i loro diritti, i loro semplici diritti, che noi purtroppo, ormai, usciti dalla culla della natura non conosciamo né tanto meno capiamo più.
Nel luglio di questo anno i Penan appoggiati dall’associazione Survival, che si occupa di tutelare i diritti di queste piccole minoranze etniche, ha ottenuto una grande vittoria: il rinvio del disboscamento da parte dell’industria malese Shing Yang, che aveva come obiettivo quello di creare una piantagione di palme da olio.
Tutto questo in un territorio in cui sarebbero dovuti essere re- insediati i Penan, che precedentemente avevano dovuto abbandonare quelle stesse terre per far posto alla diga Murum.
La cosa paradossale è che i Penan avevano accettato di doversene andare da quelle terre fertili e madri e cosa hanno ottenuto in cambio? La minaccia di un’altra grande ditta a cui del loro re- insediamento non importava nulla!
Il problema della politica del re-insediamento è proprio questo!
Le grandi compagnie non si preoccupano, una volta ottenuto il loro obiettivo, di verificare come siano le terre in cui queste popolazioni dovranno ricominciare tutto daccapo.
I Penan molto spesso si ritrovano a doversi adattare ad una terra poco fertile e povera di tutto ciò di cui hanno sempre avuto bisogno.
E’ strano sentirli parlare, in alcuni filmati, di buldozzer e di cose così poco inerenti alla loro cultura, è strano e doloroso il fatto che abbiano dovuto coniare (adattandosi ancora una volta) nella loro lingua parole violente come quelle.
Una lingua come la loro in cui la parola “Grazie” non esiste, perché chi non condivide da loro è considerato uno stupido.
Infatti quella piccola parola, anche se noi ormai non ce ne accorgiamo più, crea dei sottilissimi e potentissimi vincoli tra una persona e l’altra.
Forse bisognerebbe fare come Bruno Manser, uno dei più grandi sostenitori dei Penan che nel 2000 venne dato per scomparso nelle foreste pluviali (probabilmente perché ritenuto scomodo per qualche autorità governativa locale), di cui ci sono rimaste solo un centinaio di foto a testimonianza dell’amore che aveva per questo popolo.
Ha avuto il coraggio di perdersi e ritrovarsi come uomo nella natura a contatto con una cultura diversa senza invaderla né contaminarla, anzi apprendendo e apprezzando il semplice vivere.





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