martedì 29 dicembre 2009

La rivincita del vecchio Scrooge


di Andrea Passamonti
Nonostante la recessione globale gli italiani si sono riversati (e continuano a riversarsi) nei centri commerciali alla ricerca dell’indispensabile regalo di Natale.
Lasciamo ad altri l’analisi sul regalo perfetto, ma proprio perché siamo in tempo di crisi può essere divertente andare ad analizzare la festa e il suo conseguente scambio di regali da qualche altro punto di vista.
È quello che ha fatto il Professor Joel Waldfogel che, nel 1993, pubblicò sull’American Economic Review un interessante articolo intitolato “The deadweight loss of Christmas” (La perdita netta di Natale), ripreso oggi dal libro Scroogeconomics, omaggio evidente all’avido Ebenezer Scrooge di Dickens.
Il professore, tralasciando le considerazioni macroeconomiche (trasformandoci in animali da consumo non facciamo altro che bene al nostro PIL), si sofferma su un analisi microeconomica del problema.
La tesi di Waldfogel è semplice: dato che non possiamo conoscere esattamente le preferenze delle persone alle quali facciamo regali, è molto probabile che riguardo a un bene ci sia una differenza tra il prezzo pagato dal donatore e il valore che attribuisce al bene chi il regalo lo riceve. Questa differenza di attribuzione di valore è la nostra perdita netta di Natale. In poche parole se Tizio regala a Caio una camicia da 80 Euro, ma Caio per quella stessa camicia non avrebbe speso più di 30 Euro, siamo nel caso di una distruzione di valore.
Moltiplicate per i regali natalizi che vengono scambiati negli Stati Uniti e otterrete una perdita di valore che secondo Waldfogel si aggirerebbe tra i 4 e i 13 miliardi di dollari.
L’articolo meriterebbe più approfondite considerazioni, ma visto il poco spazio e la riluttanza di molti verso l’argomento è bene soffermarsi sul messaggio che questo articolo può riservarci.
È meglio evitare l’ormai tradizionale regalo a sorpresa e sostituirlo con la busta del nonno?
Non credo. Più utile sarebbe aggirare il problema in un altro modo: fare regali solo alle persone che si conoscono bene. Non a caso secondo la ricerca del Professore i regali degli amici sono molto più efficienti di quelli di zii e zie.

Non resta che un ultimo augurio: buone feste (e regali) a tutti!

Kaela, figlia del mare


di Claudia Giannini
Kaela era figlia del mare. Era nata tra le onde, ma non aveva visto la luce, perché era nata nel buio. Quel buio nero che crea il mare quando s’abbraccia al cielo. Aliya la partorì in silenzio, con un pezzo di stoffa tra i denti, per non disturbare gli altri cento che pregavano. Pregavano per la prima vittima di quel viaggio di speranza, abbandonata dolcemente tra le onde perché non c’era posto per i morti su quella barca. E proprio su quel gommone tra due terre la morte lasciava il posto alla vita, in un angolo di mondo senza tempo, dove il passato s’univa al futuro.
Se l’era tirata su dalle cosce Aliya, e l’aveva avvolta in un coperta di lana spessa, che prima era servita a proteggere la pancia e ora a proteggere Kaela, ancora viola di prima vita.
Erano partiti in tanti dalla Somalia, Aliya s’era fatta un fagotto e aveva ricercato il coraggio in fondo a sé. L’aveva aiutata Sadiiq. Vai tu, io arriverò. Vai a partorire in paradiso, io ti raggiungerò. Ed era partita. Era partita per lei, per il suo uomo, ma soprattutto per la figlia che aveva in grembo.
I primi dolori erano arrivati nella lunga strada dalla Somalia all’Egitto e poi alla Libia e il sentore di un parto improvviso s’era insinuato dentro di lei, ma ormai era troppo tardi per rinunciare ad imbarcarsi. A Tripoli li aspettavano gli scafisti. I soldi ce li aveva nascosti nel petto, risparmi di una vita spesi per la vita.
S’erano imbarcati di notte ed erano tanti, troppi in quei gommoni così stretti. Le ragazze che aveva conosciuto Aliya non le rivide mai più, s’imbarcarono diversamente.
Sapeva che ci sarebbe voluto tanto, almeno venti giorni e venti notti a tenersi saldamente pregando la clemenza del mare. E sapeva che avrebbe conosciuto la morte, le si sarebbe presentata nei visi spenti di chi non sarebbe sopravvissuto.
Dopo il primo, di morti abbandonati ne erano seguiti altri. E altri ancora. Ma a ogni braccio che Aliya vedeva scivolare nell’acqua, cercava di concentrare la sua attenzione sugli occhi di sua figlia. Erano celesti, vivi, anche se la sofferenza s’era già insinuata in quel corpicino troppo debole. Di latte ne aveva Aliya e doveva lottare con le forze che l’abbandonavano giorno dopo giorno.
L’acqua era finita il diciannovesimo giorno e s’era portata dietro le speranze. L’unica fonte di energia era il canto. Un canto sibilato, dolce, che sussurrava cullando la sua piccina, avvolta nel poco calore che riusciva a trasmetterle. C’erano momenti in cui la sua vista si annebbiava e doveva lottare per mantenere conoscenza. Era il pianto di Kaela a tenerla viva, perché finchè c’era pianto, c’era vita.
Non capì quando gli altri cominciarono a gridare. E neanche quando la sollevarono dalla barca cercando di rassicurarla. Probabilmente capì di avercela fatta solo quando si svegliò in un letto caldo accanto a un’incubatrice in cui dormiva dolcemente Kaela, con un pugno piccolo piccolo appoggiato accanto al volto. Furono i colori a farla sentire bene. Fu il contrasto tra lo scuro cioccolato della pelle della sua bambina e il bianco candido dei lenzuoli che l’avvolgevano.
In quel contrasto c’era la vita. E quel bianco era semplicemente un nuovo inizio.
Non aveva paura Aliya, l’aveva sprecata tutta su quel gommone. Ora le rimaneva la tranquillità, la consapevolezza che tutto doveva necessariamente andare meglio. Perché il difficile doveva essere passato.
Pensò a Sadiiq, a quando l’avrebbe raggiunta. Era certa che lui ce l’avrebbe fatta a sopportare quel viaggio, perché l’amava troppo per abbandonarla.
È sugli occhi di Kaela che si chiude questa storia. Su quegli occhi inconsapevoli e celesti, su una bambina che crescerà guardando il mondo e credendolo l’unico possibile, senza ombra di ciò che di diverso invece esiste. E si chiude sulle labbra carnose di Aliya, nel momento in cui si schiudono in un sorriso, per il solo fatto di aver cambiato il mondo di sua figlia, di averle regalato un universo migliore in cui vivere e averla salvata dal dolore che invece aveva segnato lei.È così che si chiude questa storia. Su due occhi di bambina che osservano con curiosità il proprio papà, dopo cinque anni di attesa. E con le labbra carnose di Aliya che toccano quelle di suo marito, dopo cinque anni di attesa.

martedì 22 dicembre 2009

Ma non era meglio un bel mercatino?


di Claudia Giannini
Negli ultimi tempi la piazza di Latina è stata al centro dell’attenzione per la questione piano sosta, ma come se non bastasse, ora è stata trasformata in un mini centro commerciale di plastica bianca.
Un tendone col tetto spiovente, un cartello tutto rosso su cui campeggia la scritta “Idee per il Natale” e canzoncine natalizie in sottofondo. Basta poco per fare Natale, viene da pensare. E invece basta poco per uccidere una piazza, penso io.
Ma non ci stava meglio un bel mercatino? Di quelli con le calze della Befana e le caramelle, lo zucchero filato e le caldarroste. E pensare che la tensostruttura ha anche tolto spazio al consueto Mercatino dell’Antiquariato che si svolge ogni prima domenica del mese, confinato tutto intorno, come a fare da contorno al piatto forte.
Forse il Comune ha pensato bene di ripopolare la piazza facendone un centro commerciale, magari per fare contenti quei pochi negozianti fortunati che si sono accaparrati uno stand all’interno. A ben vedere però, passeggiando nella “grande serra”, la maggior parte degli spazi è occupata da negozi che già hanno sede nei principali centri commerciali della città.
Tra l’altro non sembra chiaro il metodo con cui gli stand sono stati destinati, né sono reperibili via internet informazioni in proposito.
Per non parlare dell’aspetto estetico, che si sa, ultimamente in Comune è un po’ trascurato. Basta gettare un occhio tra le colonne dell’Intendenza di Finanza, dove si erge un bel fascio di ferro con infilzata una freccia, struttura donata alla città e per questo legittimata a comparire dove proprio non c’entra.
E poi, non si era qualificato il centro di Latina come ‘centro storico’? Proprio su questa base è stato costruito il nuovo piano sosta. Forse ora non lo è più, ora che c’è bisogno di montare una serra in Piazza del Popolo. Ma attenzione, dentro non ci sono pomodori o fragoline, solo ‘Idee per il Natale’.



Il Babbo Silvio entra nelle case degli italiani. Non dal camino, come tradizione vorrebbe, ma direttamente dal computer attraverso un messaggio di auguri ai lettori de Il Giornale.
Ma Babbo Silvio, al contrario del collega vestito di rosso (quindi possibile comunista) fa di più e ai lettori del quotidiano di famiglia “consiglia” il regalo da fare: la tessera del Pdl.
Avete letto bene. Lasciate perdere le Stelle di Natale. Basta con i soliti libri. Al bando le Pigotte dell’Unicef.
A Natale regalatevi e regalate la tessera del Pdl. E già che ci siete, adottate il Silvio-Pigotta.

Il freddo paralizza i treni, ma anche il governo


di Andrea Passamonti
Il freddo di questi giorni sembra aver messo ko il nostro Paese e tutte l’Europa. Strade, treni, arerei, autobus cittadini, scuole e molti altri servizi hanno dovuto arrendersi al maltempo, senza poter opporre nessun tipo di resistenza. Ma tutto questo poteva essere evitato oppure è un problema irrisolvibile al quale tutti dobbiamo soggiacere?
La risposta sembra essere differente a seconda del Paese in cui ci si trovi.
Se per quanto riguarda il trasporto aereo la situazione sembra essere omogenea, le diverse reazioni ai disagi del trasporto ferroviario fanno pensare che i problemi hanno diversa natura, diversa gestione e soprattutto diversa reazione.
La diversa natura deriva dalla qualità dei treni: riscaldamenti che non funzionano, porte semi aperte e finestrini bloccati non danno problemi nel periodo estivo, ma in casi di temperature in picchiata diventano cause di sedili ghiacciati e porte che non si aprono all’ingresso in stazione.
La diversa gestione del problema riguarda un po’ tutte le società di gestione del trasporto ferroviario, in particolare per quanto riguarda le informazioni su ritardi e cancellazioni ai passeggeri.
Ed è su questo binario che la gestione del problema ci porta direttamente alle diverse reazioni. Se questa mancanza di comunicazione sembra straordinaria in Europa (con un particolare caso per il tunnel della Manica), questa è all’ordine del giorno in Italia. Nessuno si scandalizza più di tanto se ci sono dieci, venti, trenta minuti o più di ritardo senza che qualcuno avverta in tempi leciti il passeggero infreddolito.
Ma la diversa reazione dei governi da indicazioni più precise su come questi problemi vengono metabolizzati dalla popolazione. Per il Ministro dei Trasporti francese Dominique de Bussereau “E’ inaccettabile che il collegamento tra Inghilterra e Francia non funziona perché fuori sta nevicando. Inoltre - prosegue il Ministro – il governo chiederà spiegazioni, farà degli accertamenti e chiederà che vangano prese delle misure in modo che tutto questo non accada più”. Gli fa eco anche il Ministro dell’Ecologia Borloo che convocherà i vertici delle società che gestiscono il servizio perché “non puoi trattare le persone in questo modo, lasciandole senza informazioni”.
Questi i Ministri francesi.Matteoli? Ci sei?

giovedì 17 dicembre 2009

Cose di casa nostra


di Matteo Napolitano

“Ha senso consacrare la propria vita per un Paese come l’Italia?” “Certo che ce l’ha” “E se fosse una battaglia persa?” “Le battaglie in cui si crede non sono mai perse”. Rispondeva così Antonino Caponnetto, il fondatore del pool antimafia a Palermo. Se fosse ancora vivo, lui che non è una vittima delle cosche, e con lui ci fossero ancora Falcone, Borsellino, Impastato, Don Diana e tutte le vittime di mafia gli chiederei ancora “Ma ad oggi vale davvero la pena sacrificarsi per l’Italia?”
Non so se la risposta sarebbe la stessa, immagino di sì, ma l’entusiasmo di certo non risponderebbe allo stesso che c’era in quei giorni caldi e oltremodo significativi dei primi anni ’90. In questi giorni ed in quelli poco precedenti, tutte le testate giornalistiche sono e sono state occupate da titoli riguardanti la corruzione della politica da parte della mafia, argomento non nuovo, ma a quanto pare nemmeno superato, anzi, in continua ribalta. Se pensiamo al caso MOF di Fondi e alla scandalosa conferma del consiglio comunale, alle dichiarazioni del pentito Spatuzza, alle accuse contro Dell’Utri, Berlusconi e Mangano, alle rivelazioni del figlio di Ciancimino, il cui padre fu sindaco di Palermo e compagno di merende di Marcincus e Provenzano, e ai nuovi risvolti dei casi di movimenti di Procure e dell’archivio Genchi, ci rendiamo conto che gli avvenimenti legati alla malavita organizzata sono, nel nostro Paese e nella nostra provincia, sempre all’ordine del giorno.
Ciò che davvero dovremmo domandarci è, cosa facciamo tutti, me compreso, per far sì che questi argomenti non siano più all’ordine del giorno? La domanda può sembrare alquanto banale e portare a risposte futili quali “E vabé che dobbiamo fare?” o meglio “ E vabé cosa possiamo fare?” Possiamo iniziare innanzitutto a collaborare affinché la memoria non venga a sgretolarsi intitolando vie, luoghi, piazze, centri importanti di aggregazione e così via a coloro che per la mafia hanno lasciato tutto e per mano della mafia sono stati uccisi; possiamo chiedere di rendere pubblica la lista dei beni che sono stati confiscati alla criminalità organizzata nel nostro territorio, beni che fruttavano più di 80 milioni di euro, e riutilizzare tali beni per realizzare strutture adeguate alla vita sociale, politica e cittadina, senza il bisogno di rimetterli in vendita e quindi rimetterli in mani mafiose; possiamo chiedere servizi di maggiore sensibilizzazione a queste tematiche ad esempio nelle scuole e potremmo fare tante altre cose, bastano la volontà e il buon senso delle menti.
Credo che in un Paese che si confessi un rispettabile Paese democratico, non possa esserci promozione per una politica che protegge le caste e fa sì che queste si prendano gioco di altre persone, uccidendo un po’ alla volta la nostra democrazia, nello sberleffo di coloro che hanno perso la vita.
Sconfiggiamo la paura e passiamo alle azioni, cerchiamo già nel nostro piccolo di debellare le mafie.

Natale, festa di tutti


di Claudia Giannini
Un messaggio male interpretato, quello lanciato da una scuola elementare statale di Cremona. Di fronte al forte accento multiculturale che caratterizza l’istituto, infatti, i docenti hanno sentito la necessità di fare del Natale un momento di condivisione, al di là delle differenze etniche.
Hanno scelto il nome “Festa delle Luci” per esaltare lo spirito di pace e solidarietà che caratterizza questa festa. Il loro intento, hanno spiegato, non è rinnegare il Natale o la tradizione cristiana, ma non urtare le altre culture e permettere ai bambini, anche di altre religioni, di festeggiare una festa di pace insieme ai loro compagni.
Ma siamo in Italia, un’Italia che per proteggere le proprie tradizioni, mette in secondo piano le persone. Ne ha dato prova il Ministro Gelmini, che ha commentato con parole dure l’iniziativa: “Non si crea integrazione e non la si aiuta eliminando la nostra storia e la nostra identità. In particolare il Natale contiene un messaggio di fratellanza universale. Quindi è un simbolo che non divide ma unisce” Un commento cieco e estremamente semplicistico.
Anche perchè è proprio dalla consapevolezza di un Natale che può unire che è partita l’idea degli insegnanti del Manzoni. Troppo spesso infatti, si trattano tematiche etiche che dovrebbero essere condivise, come prerogativa della religione cristiana. La solidarietà, la pace, la fratellanza, esistono anche in altre culture e forse in Italia il Natale può essere interpretato in questo senso, accentuandone gli aspetti che sono condivisi da tutti. È questo lo sforzo che bisogna fare oggi, in un mondo in cui la parola d’ordine è multicultura. Le maestre del Manzoni hanno compreso che c’è il bisogno di aprirsi, ma soprattutto di dare ai bambini un insegnamento che sviluppi la loro capacità di interagire con le diverse etnie.
Niente scalpore quindi, o rinuncia alle proprie tradizioni. Semplicemente un tentativo di dare maggior valore al Natale, interpretandolo nel senso di una festa della pace e rendendolo quindi la festa di tutti.