martedì 22 settembre 2009

Eredità involontarie


di Stefano Pietrosanti
“Via dalle linee, prendiamo il fucile, forza compagni alla guerra civile!” l’inno di Potere Operaio, era il 1967. Lo cantavano tante belle voci; potenti, motivate. La maggioranza di loro ci credeva? Non penso proprio, la buona parte di loro era buona borghesia animata – perfino – da idee nobili seppure stupide, che non sarebbe mai andata alla “guerra civile”, ma che, presa da un certo dannunzianesimo della rivolta, si concedeva il gusto di sentirsi guerriera. Resta comunque il fatto che le parole dette erano quelle. Ora mi chiedo, chi è divenuto il vero erede di quelle inquietanti urla al vento? Tralascio volutamente i figli ideologici della minoranza armata, sparuti e innocui; a me viene in mente un uomo, è basso e fa il Ministro della Funzione Pubblica. Da poco ha detto che “la sinistra parassitaria deve andare a morire ammazzata”, ma – più importante – da un po’ più di tempo parla di teorici colpi di stato ad opera di gruppi di pressione. Colpo di stato, ossia “atto violento o comunque illegale atto a provocare un cambiamento di regime”. Sì, Renato Brunetta, il nemico del sessantottismo, è in questo incosciente erede dei suoi errori; in quanto singolo e in quanto simbolo di una folta schiera di persone che, soprattutto a destra, ha portato con sé un brutto vizio del periodo: lo scarso peso dato alle parole. Il linguaggio è il limite del nostro mondo e, in politica, è l’unico mezzo in grado di tracciare l’orizzonte delle prospettive. La parola è parte integrante dell’azione, se detta sulla pubblica scena. In questo ambito, ad esempio, chiedere morte significa uccidere a metà, chiedere la rivoluzione violenta è fertilizzante per i fucili e urlare al colpo di stato dove nulla c’è chiama, alla lunga, violenza e illiberalità. Non mi soffermo sullo sproloquio contro le élite di quest’uomo, nato dal fastidio per essere stato da sempre messo a margine dai salotti bene, mi soffermo sui suoi toni, suoi e del suo schieramento. Mi soffermo sul travisamento del vocabolario italiano compiuto dalla maggioranza di una generazione che ora è al governo; sull’idea condivisa da molti nel sedicente partito liberale di massa gemellato con la lega: che in una democrazia si possano propugnare istanze anche legittime con parole violente, anti-sistema, oltre qualsiasi decenza e che richiamano ogni tre per due una visione politica quanto meno manesca, se non di piombo, senza che poi si danneggi la democrazia in sé per sé. Mi voglio soffermare – e voglio che quel qualcuno che legge si soffermi – sul fatto che proprio una presa alla leggera del vocabolario da parte dei democratici degli anni venti, portò chi invece le parole dette le prendeva sul serio a cancellare lo stato di libertà democratica. Non succederà oggi, perché qui siamo nel triste regno della farsa e non della tragedia, ma lo spettacolo è ugualmente degradante.“Nasce il Partito dell’Insurrezione” cantavano i ragazzi di Potere Operaio. Sbagliavano, in questo Stato il partito dell’insurrezione, della rivolta perenne e fine a se stessa, autofagocitante, è vivo da quasi un secolo ed emette grida di ottima salute.

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