di Martina Nasato
Che senso ha tornare a parlare di Norman Zarcone a un mese dalla sua morte? Ormai è caduto il silenzio sulla sua triste storia, i giornali non ne fanno più menzione, chissà se è davvero esistito in un mondo che non si ferma neanche più a riflettere. Ricordate quel giovane dottorando siciliano, morto suicida un bel giorno di metà settembre? Si è lanciato dal settimo piano della sua facoltà. Aveva due lauree, in “Filosofia della conoscenza e della comunicazione” e in “Filosofia e storia delle idee”, entrambe conseguite con 110 e lode. Ma nessuna borsa di studio e per lui non c'era posto, glielo avevano detto chiaro e tondo. Avere 27 anni e sentirsi già senza futuro è troppo da sopportare. C'è la crisi, i fondi sono pochi anche per le università. E se non sei “figlio di”, se non hai le giuste conoscenze, le spintarelle, non ti spetta nulla. Non c'è posto per te in un sistema universitario elitario, appannaggio di pochi, specchio di un paese, ormai, per pochi eletti (nel vero senso della parola) e per la loro corte. Non importa quanti sacrifici abbiano fatto i tuoi genitori per farti studiare: la precedenza è data alle amicizie. Vieni da una famiglia onesta, sei bravo e preparato, ma non c'è posto per te. Il padre di Norman l'ha definito “un omicidio di Stato”. Come dargli torto? Suo figlio è stato spinto giù da questo grande e ridicolo circo che è l'Italia e da un sistema agonizzante tenuto in piedi con forme di terrorismo psicologico.
Il Ministro Gelmini, adesso, vorrebbe farci credere che la sua riforma spazzerà via il marcio che c'è nel sistema universitario italiano, portando con sé una ventata di meritocrazia. In realtà sarà il contrario, è giusto che si sappia. Ancora una volta saranno favoriti i ricchi, i potenti e i raccomandati. Molti atenei italiani sono in rivolta, ma nessuno lo dice. La cultura si ribella, in nome di nuovi ideali e in nome di Norman, ormai simbolo di una generazione.
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