sabato 14 gennaio 2012

PUNTINI, PUNTINI, PUNTINI...

Di Diletta Di Paola

Nel mondo dell’arte c’è una continua disputa tra quella che gli antichi Greci chiamavano “τέχνη”, ossia tecnica, e quella che da Caravaggio in poi possiamo chiamare espressione.
La tecnica può diventare semplicemente il mezzo per l’espressione, non deve essere vuota né fine a se stessa.
Quando ci troviamo davanti a un quadro cosa ci colpisce? A mio parere il dialogo che esso riesce ad istaurare con i nostri sensi.
Il primo senso che viene coinvolto è senza dubbio la vista. Duchamp direbbe che “la pittura non dovrebbe essere soltanto 'retinica' o visiva: “dovrebbe avere a che fare con la materia grigia della nostra facoltà d'intendere invece di essere puramente visiva...”.
Prima di lui gli impressionisti e poi i puntinisti avevano basato la loro intera carriera pittorica sulla “retina”, sulla luce che attraversando l’occhio e poi il colore si andava a riflettere sulle loro tele.
“Una domenica pomeriggio sull'isola della Grande Jatte” quadro manifesto del puntinismo di Seurat, è un vero e proprio colpo d’occhio!!!
La luce si proietta attraverso una miriade di punti, sembra quasi voler esprimere il concetto religioso che da sempre considera il punto l’origine della Terra, degli uomini.
L’ Ohm della cultura Induista è il seme, il suono primordiale da cui vorticosamente si generano gli altri mantra, o preghiere ripetute, che poi tornano all’origine.
Ed è proprio sul concetto di SPANDA e di REDDITUS, ossia di espansione e di ritorno all’ Ohm che si basa tutta la cultura Induista.
Questa può essere considerata, ironicamente, la cultura “puntinista” per eccellenza !!!
Le donne indossano per motivi religiosi (ed estetici, volendo) il famoso bindu, la goccia, il punto che anticamente indicava l’età di colei che lo indossava.
Dal punto di vista spirituale e religioso viene posto al centro delle sopracciglia perché è lì che è situato il sesto chakra, la sede della saggezza nascosta.
Rappresenta il terzo occhio che collega il mondo spirituale a quello reale.
La tradizione vuole che il bindu venga tracciato sulla fronte con della terra rossa, che servirebbe per rinfrescare e stimolare l’energia che da esso si propaga.
Se si va a fare una passeggiata per la “Indian Highway”, mostra in corso al MAXXI di Roma, ci si ritroverà davanti un enorme cuore di balena tempestato da bindu.
Un mostro che sembra uscire direttamente da qualche incubo di Goya.
Ed è proprio a questo “nero” e grande maestro del passato che si è ispirata Bharti Kher per dar vita alla sua gigante opera “An Absence of Assignable Cause”.
Un cuore dell’enorme balena blu, considerato il più grande mammifero del pianeta.
Opera che nel 2010 ha partecipato alla mostra “ The Empire Strikes Back: Indian Art Today” tenutasi niente di meno che alla Saatchi Gallery.
Non a caso Baharti Kher viene considerata la più grande artista contemporanea Indiana.
Affascinata dal potere del dualismo estetico e religioso del bindu fa di esso il punto, il seme, la sua firma di ogni sua opera.
Questo simbolo diventa la pelle delle sue creature e la costellazione dei suoi quadri.
Il numero infinito dei bindu utilizzati rappresenta per l’artista la moltitudine di persone, culture, religioni lingue diverse che si fondono dando vita al fenomeno della società multiculturale a cui assistiamo oggi.
Quindi “An Absence of Assignable Cause” può essere considerata il fulcro di tutta la sua opera, una fusione di vite diverse piene di fascino e contraddizioni che unendosi formano un unico grande cuore pulsante.
Tutti noi siamo dei puntini, dei vertici, dei terzi occhi alla ricerca di luce, di tante luci che una volta trovate ci portino ad esultare facendoci sentire un pò Blues Brothers, “Tu hai visto la luce!!!”.


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